Marilina Giaquinta, scrittrice catanese, coltiva da sempre la passione per la letteratura e l’arte in genere, dedicandosi alla scrittura sin dalla sua adolescenza. Intensissima la sua attività letteraria della quale ricordiamo solo qualche ‘passo’. Il 21 marzo 2014 pubblica la sua prima silloge poetica dal titolo “Il passo svelto dell’amore”, ed. Le Farfalle, che verrà ristampata per esaurimento delle copie della prima edizione, con una prefazione della Prof.ssa Rosaria Sardo, docente di Linguistica generale presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania. Il 27 giugno 2015 pubblica, a cura della Melino Nerella Edizioni, il suo secondo libro, “L’amore non sta in piedi”, una silloge di racconti, anche questo ristampato per esaurimento delle copie della prima edizione. Nel settembre 2015 inventa un nuovo format per il magazine “Sicilia in Rosa” dal titolo “Parole mai scritte”, componendo lettere tra scrittori e poeti che hanno realmente intrattenuto rapporti epistolari tra di loro. Nel dicembre 2015 crea un altro format radiofonico dal titolo “L’invenzione dell’amore”, un programma che va in onda su una radio locale (Radio Delfino), tutto dedicato alla poesia. Il 7 aprile 2016 ha partecipato al Festival IsolaPoesia, tenutosi a Misterbianco (CT), con letture tratte dai suoi ultimi testi. Il 14 febbraio 2017 viene pubblicato, a cura della Coazinzola Press, il suo terzo libro, “Malanotte”, una silloge di racconti, presentato, nel corso del mese di marzo 2017, a Monza e, nell’ambito del Book Pride 2017, a Milano. Il 21 marzo 2017 ha partecipato, a Genova, al percorso poetico nei luoghi di Dino Campana.
Il prossimo 10 maggio 2017, nell’ambito di un congresso internazionale organizzato dal Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Roma Tre e dell’Università di Catania, leggerà brani tratti da “Malanotte”, alcune proprie poesie e farà un intervento sul tema del congresso “La figura della madre attraverso la storia del genere umano”.
Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Se dovessi rispondere d’impeto, direi che la poesia è come l’amore: tutti lo sentono, tutti lo hanno provato almeno una volta, tutti lo riconoscono, tutti ne scrivono e ne cantano e ne rimano ma nessuno, neanche i poeti, sanno definirlo. Posso dirti cosa è per me la poesia. Per me la poesia è un bisogno, una necessità, nel senso di “o scrivere o morire”. O impazzire, come è accaduto a Hölderlin. E questo bisogno è incessante, metamerico, si riforma sempre ogni volta che lo recidi, ogni volta che ti separi da quello che hai scritto, proprio come la coda della lucertola, perché, la vita è quello che Ungaretti diceva della poesia, e cioè “l’esplorazione di un personale continente d’inferno” (e di quello del tempo in cui ci tocca stare), è ricerca di scampo, tentativo imperfetto di procedere sul filo dell’abisso, cercando di raggiungere un equilibrio precario che consenta di fare un passo (tremante, incerto, confuso) alla volta, senza precipitare. Come vedi, vita e poesia coincidono. Ai primi del secolo scorso, Modigliani scriveva, in una lettera all’amico Oscar Ghiglia, che “la Bellezza ha anche dei doveri dolorosi”, vale lo stesso per la poesia: chi scrive ha il dovere di essere se stesso e di non mentire mai, a costo di stare male, a costo del proprio dolore. La poesia è una maieutica che ti tira fuori tutto quello che sei, ti snuda, ti rovista, “t’arrimìna” come una doglia e ti fa sputare fuori sangue e ossa. In questo periodo, sto leggendo un libro scritto da un grandissimo contemporaneo che è Enrique Vila-Matas e che si intitola “Bartleby e compagnia”: ci racconta di tutti gli scrittori che, senza un’apparente ragione, e spesso dopo un esordio fulminante, decidono all’improvviso di non scrivere, proprio come il Bartleby di Melville che rispondeva “I would prefer not to”, preferiscono non farlo, appunto, molti di loro dopo essersi domandati, senza trovare una risposta che quietasse il loro tormento, quale fosse il senso della scrittura, perché scrivere insomma, a cosa servisse, scegliendo la negazione, la rinuncia, il mutismo, alcuni scomparendo del tutto, facendo perdere le tracce di sé, altri impazzendo come Robert Walser, altri suicidandosi come von Kleist dopo aver pronunciato parole terribili come “Non sono ormai più di qui”. Pur occupandosi di coloro che si sono sottratti alla scrittura con un senso profondo di partigianeria e simpatia canagliesca (per un agrafo della sua minuziosa trattazione che diventa un avvoltoiologo, ad esempio), Vila-Matas, di tanto in tanto lancia il giubbetto salvagente a favore delle ragioni per le quali si “sceglie” di scrivere (in fondo, anche lui lo fa, anzi, sembra quasi cercare nelle vite dei suoi agrafi un motivo valido per smettere di farlo): “scrivere non è importante, ma non si può fare altro”, oppure, più avanti “la letteratura, per quanto ci appassioni negarla, permette di riscattare dall’oblio tutto ciò su cui lo sguardo contemporaneo, sempre più immorale, pretende di scivolare con la più assoluta indifferenza”.
Qual è il ruolo della vita nella tua poesia?
Per me la poesia è vita, sia perché la vita è ciò di cui la mia poesia parla, sia perché la poesia è la mia vita, nel senso che sento il bisogno, la necessità indefettibile di scriverla. Scrivo poesia dai tempi di scuola, anche se la decisione di pubblicare quelli che io chiamo i miei “accapo” risale solo a tre anni fa, e cioè al 2014, quando è uscito per la casa editrice “Le farfalle” di Angelo Scandurra, “Il passo svelto dell’amore”. A dire il vero, non avrei mai creduto che quella raccolta avesse così tanto consenso: devo a quel libro, e alla benevolenza di tutto coloro che l’hanno letto (il libro è stato ristampato) e amato, la mia decisione di continuare a pubblicare gli altri due, coi quali mi sono cimentata nella narrativa. La poesia è un bisogno primario, come bere e mangiare, anche se scrivere poesia, a mio avviso, non significa essere poeti. Come ho detto, Hölderlin impazzì perché voleva che la poesia fosse la sua vita: non riusciva a mantenere a lungo i vari lavori di istitutore perché non concepiva la sua vita come altra dalla poesia, la sua vita doveva consistere nella poesia. Per me il poeta è questo. Quando Čechov cominciò a pubblicare i suoi racconti sui giornali dell’epoca, poiché veniva pagato a riga, scriveva in modo forsennato. In tre anni sfornò cento racconti e un romanzo. Quando Grigorovič, un anziano scrittore che era sopratutto la massima autorità nel campo della critica letteraria (si batté affinché a Čechov fosse assegnato il Premio Pučkin) lesse un suo racconto sulla “Gazzetta di Pietroburgo” gli consigliò di smettere di scrivere così in fretta, di rispettare il talento che così raramente si riceve in sorte. “Se siete povero, soffrite piuttosto la fame” gli scrisse. Ecco il poeta è questo. Ne abbiamo avuti esempi continui nella nostra tradizione letteraria: mi piace ricordare, ad esempio, Valentino Zeichen, che ho avuto la fortuna di intervistare poco prima che morisse e l’onore di leggere le sue poesie insieme a lui. Nella mia poesia c’è la mia vita, le mie emozioni, il mio dolore, i miei dubbi, la ferocia del tempo cupo che m’è toccato di vivere, la disperazione della gente con cui vengo a contatto per via del mio lavoro, la mia famiglia, le mie passioni, la mia terra e la sua lingua che è lingua di memoria e di infanzia, ci sono le mie letture, c’è l’amore.
Qual è il momento in cui una poesia può dirsi compiuta?
Scrivo quasi sempre di notte: mi gira in testa una parola o una frase quasi come una ossessione di cui non riesco a liberarmi fino a quando non la tiro fuori e la metto per iscritto. Ecco quando per me una poesia è compiuta. Probabilmente quella parola e quella frase sono la risultante, la parte finale di una riflessione su qualcosa o qualcuno, o un’esperienza, o una vicenda, che mi ha colpito nel corso del giorno e che il mio cervello elabora poi in quel modo, inseguendomi colle parole. A me la poesia viene naturale, poco “labor limae”, scrivo e leggo quasi ogni notte. Non potrei vivere senza leggere. Non potrei vivere senza poesia: è il mio tentativo di salvarmi e, quindi, di salvare anche quello in cui credo, di resistere all’indifferenza al male, di urlare l’orrore del tempo in cui viviamo, di dar voce alla disperazione di chi vuole scampare al proprio inferno mettendosi in mare, di far parlare il cuore, di credere ancora che si può essere umani.
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Tre poesie inedite
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I
È diventato difficile
vivere,
vero, amico mio?
e questo mese
di aprile
ha un cielo
mammaloccuto
di pioggia
e di paura
e non è il più crudele,
(spiegalo tu al poeta:
troppo facile
prendersela
con la primavera!)
anche se i bambini
muoiono a occhi
aperti
mentre i fiori
continuano a
sbocciare.
Ma tu lo sai, vero?
gli alberi
non sanno
morire
e neanche
i bambini.
Ormai dei sogni
si parla solo
nei manuali
di medicina,
(un poeta
lo disse
e aveva ragione)
la testa,
elettrica
di buio,
aggiglia
di freddo
e di pensieri
e le notti
si stirano
la fatica
delle vertebre.
Lo sai, amico mio
lasciarsi
non è della vita,
della vita è
tenersi
(un poeta
diceva
che è facile
e non si deve
imparare).
E allora rimani,
non te ne andare,
resisti,
tieniti forte,
attaccati
al mio cuore
che battiti ne ha
forse anche
troppi.
Ancora per me
un’ultima volta
continua a vivere.
Vivi, amico mio
vivi fino a quando
ci sarà ancora
il mare.
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II
E dille ‘ste parole
fallo un discorso
dritto
come il tuo naso,
che colla scacione
che vuoi alluzzare
la stesa del mare
che ha allinchiuta
la finestra
lo giri di profilo
che m’appari
un Cesare nummario
che t’ammanca
l’alloro e la biga
non t’affruntare,
non arrossicare
come la pummarola
‘ncoppa alla pizza
che anche quella
ti fa venire il pititto,
non essere
scurnuso
com’ un cielo
che non cchiove,
e infatti ci hai
il paracqua
asciutto e
strignuto
affocato
intorciniato
che pare
‘na lancia
che me la vuoi
giavellare
eccerto!
aperto
non può stare
che la disgrazia
t’arrichiama
e porta male.
Vuoi parlare
del tempo?
fa caldo assai
il sole s’è
spaparanzato
e sbrilluccica
e si è sbrizziato
intorn’ alla capa
che pari ‘n’angelo
sterminatore
e allicca di luce
tutta l’aria
e inteporisce
e alluccica
e rammollisce
il cuore.
Vedi, sempre
là si va a finire?
Stai muto?
ci hai gli spingoli?
che ti arrimeni
su quella sedia
indiavoluto
e conzi e sconzi
quelle gambe
che s’arròppano
e dondolìano
che sembra
che ci hai
il riflesso di Babinski?
Ti alzi all’antrasatta
ti devi allestare
un’urgenza
arricordata
ti devi sdirrubbare.
Senti, coso,
io non ti lascio ire
se prima
non mi dici
come ti debbo
chiamare.
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III
Lui si chiama Abdulshalum
sorride quando lo scrivo
mastica pane e inglese
e dice che sono gud,
gli chiedo quando è nato
ma lui non ha una data
sventola un circa con la mano
e risponde un between
tra fortyciù and fortyfaiv.
Stiamo seduti soli e bui
in mezzo al mare e al cielo
perché qualcuno ha detto
che è pazzo e anche violento
e nessuno si avvicina
quando si tocca la testa,
tiene il calzone sinistro
arrotolato invano
e il volto intristito
da solchi irti e duri
come le sue parole.
Gli dò la mia acqua
che lui non sa aprire
ti aiuto? ma lui rifiuta
e gira il tappo e ride
e io non so guardare
la sua stanchezza muta.
Gli parlo delle stelle
le indico, alza lo sguardo
gli spiego su quale terra
adesso stanno brillando,
lui ha perso tutto in mare
meno che una cartuccia nica
che segreta tiene nella carne
gli andred ov maney
con cui tenterà di non morire.
Mi porto la mano al cuore
quando dice bismillah
lo accarezzo sul viso
e gli infilo la camicia.
Vieni Abdulshalum, come!
trust me, fidati di me
sono il capo di qui
sono una woman strong
ti porto dove posso,
dove ci sono gli altri,
qui c’è troppa notte
e troppe navi spente.
Lo cingo stretto in vita
barcolla, lo tengo forte,
ha un passo ginocchiuto
gli dico non c’è fretta
e abbracciati e uniti
ci mettiamo seduti
insieme a quattrocento
destini senza un nome.
Ci vediamo domani
we joint us tomorrow
mi dice prima di andare
il tuo Dio il mio Dio,
e tu ci credi e io lo cerco
è arrahmaniarrahim dico
con la mano sul petto
e una dentro la sua.
Non credevo che il mare
sapesse così di sale.