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Francesca  Woodman

 Francesca Woodman (Denver, 3 aprile 1958 – New York, 19 gennaio 1981) è stata una fotografa statunitense. Suicida a 22 anni. Volò verso la terra da un palazzo di New York. Scelte da non discutere. Non distrusse i propri lavori, prima del salto: quindi il suo passaggio in una particolare era e in una particolare fetta di mondo ha voluto lasciarlo. Addentrarsi in questo passaggio non è come partecipare a un ballo mascherato, o forse sì? C’è da comprendere chi indossa la maschera: Francesca o noi, spie sollevatrici di lapidi. Per trovare che cosa? Una ragione? L’Arte? Una ragazza?

Dire lo sguardo altrui sulle cose, accavallando le gambe e anche fumando. Dire il proprio sguardo, rimasto senza possibilità di replica. Dire.

Eliminato il colore dagli scatti, ché sia spietato il primo doppio offerto: il bianco, il nero.

Il corpo è quasi sempre aspro, scarno, per ciascuno di noi imprendibile se non nella superficie di sé, vero Francesca? Tanto non puoi replicare, e io dei critici me ne infischio.

Corpi.

Due sono i seni, due le mani, due le gambe, i reni, i polmoni. Speculare non è il volto, ma ha due occhi, troppi denti, una lingua, due tonsille, un palato, amaro come il fegato, solo, sotto un costato.

E allora hai preteso un ritaglio di specchio, tagliente, perché ciò che era uno ti faceva sentire patetica, sola?

Specchio, perché il tuo corpo non fosse obbligato ad essere unico. Avere un compagno di sé, identico, scabroso, rassicura? Capirti, adesso, non ha un vero valore: è interpretazione sterile. Le tue immagini, eredità per crearci turbamento: che scherzo in strazio!

La modella, per metà sotto ciò che io vedo teca, ha palpebre spalancate in odore nauseante di giglio-purezza. Ha paura, la modella? L’hai saputo tu. Ma ho paura io nel vederla sotto una lastra, pesante, benché non di marmo.

E quell’altra – vestita di carta da parati marcita in fiore – nascosto il volto e il sesso, ha freddo nell’inverno che si è decisa addosso.

Donne, con poca carne sulle ossa. Donne eburnee. Gigli e calle. Vento che non si innamora, che non si ferma.

Porte, per suicidarsi i polsi appesi, come un volo saltato da una sedia. Capelli tirati dalle dita: ed è la forca. Prove pratiche: ancora basse le distanze.

Porte mai spalancate alle nuvole. Che sia viziata l’aria, come una peste, una lebbra, un contagio mortale. L’aria pulita ammorba, soffoca, insudicia le calle.

Ancora teche di vetro, per sante imbalsamate con le volpi, astute bestie non addomesticabili. E poi macerie di case, per ectoplasmi femminili.

Abbandoni di donne, così ti sei voluta rappresentare, sapendo dal tuo inizio che l’immaginario apparente ha più peso del troppo raccontare, che il nulla ha più spessore delle filosofie sofferte pensate e ripensate. Teche, gigli, calle. Specchi per frantumi di arti e Arti. Mutilare la vita intera, dal principio. Invecchiarla e concederla morente, anticipando.

Poche le fughe, se le conseguenze sono il ritrovarsi murate nelle calci.

Posate sulle mani, le quotidianità gelide e appuntite. La sporcizia in ogni angolo di stanza, ché sia distante il perbene agire da borghese. Vivere nell’immondo e forse, poi, lavarsi in una vasca priva d’acqua. Sei stata accondiscendente alla comprensione di te, in parte anche alla compassione, ma di toccarti a lungo, se pur con la pupilla, non mi sento. Ti sfioro e vado via, sotto altre carte da parati a brandelli. E dei fiori, neppure il ricordo.

S.D.M.

 

 

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