Laura De Luca, “A Lei. Un faccia a faccia inevitabile”.

Accade a volte di sentire il richiamo di un libro, di provare il desiderio di portarlo con noi come un talismano o una voce cui aggrapparsi, persino se le sue pagine trattano l’argomento più perturbante che conosciamo. A Lei. Un faccia a faccia inevitabile (Edizioni La Vela, 2020) è il libro che Laura De Luca ha scritto per raccontare del suo (nostro) rapporto con la morte, colei che non vorremmo mai nominare, che invece domina il nostro essere in questo mondo. Accade anche, per contingenze che avvertiamo legate in modo forse non casuale, di leggere senza il necessario distacco, piuttosto con gratitudine per le parole-specchio, le riflessioni condivise per esperienze già attraversate, le immagini che si stagliano con l’impressione di averle dentro da sempre.

Il testo, tra il saggio breve e la rievocazione autobiografica, assume a tratti la forma di un dialogo, in cui l’io narrante si rivolge a un’interlocutrice tanto potente quanto invisibile, per ciò stesso rivestita di molteplici fisionomie e attributi sin dal primo sorgere della coscienza, dalla prima misura di consapevolezza della mente umana. Eppure i tentativi di definizione sono perlopiù in levare:

«Tutti diventavano leggerissimi. Come se tu fossi un’assenza, mentre invece sei la più presente di tutti. Sei una sottrazione, un cambio di stato. Ti porti via il pesante dell’essere, cioè la vita, la lotta, il divenire. La gravità della gravità, la drammaticità di tutto ciò che decade.»

Nel flusso di un’elocuzione che alterna quadri del vissuto dell’autrice e riferimenti filosofico-letterari, tra i massimi pensatori è convocato Martin Heidegger, quando afferma che l’uomo non è che per la morte: un’intuizione che orienta a entrare in confidenza con la nostra finitudine, sin dal primo incontro con Lei, in qualunque momento della vita sia avvenuto. Da lì in avanti non si può evitare di misurarsi con gli eventi della storia individuale e collettiva che la pongono al centro dell’esistenza stessa: gli incidenti e la malattia, la vecchiaia e la perdita della memoria che precede la fine, la scomparsa di persone care e personaggi pubblici, tutti gli innumerevoli episodi che rivelano l’equilibrio precario delle nostre vite, la fragilità della condizione umana. Se non esiste un modo uguale per tutti di affrontare la prospettiva incontrovertibile della fine, questo libro è un resoconto, tra i più intelligenti e commoventi, delle strategie che la psiche mette in atto nell’impari partita a scacchi con la morte (non a caso un fotogramma del famoso film Il settimo sigillo di Bergman spicca sul frontespizio del libro). La schiettezza è la postura meno ingannevole:

«E forse non sei neppure reale, sei solo la fine della singola vita che non onora più la prosecuzione della specie, che si carica del suo potere di prosecuzione del dna. […] sei il fantasma della crudeltà della vita che semplicemente si esaurisce in un punto, prosegue e si propaga in altro…»

Nonostante la durezza del tema, la narrazione è distesa, senza eccessi di malinconia, guidata da occhi vigili e lucidi (anche di lacrime, perché a volte è bene non negarsele). La voce dell’autrice  accompagna fino alla conclusione del libro senza risparmio di affondi ed emozioni in gioco, ma anche scevra da qualsiasi forma di consolazione e di illusione. Allora, su un fondale in apparenza così oscuro, si scorge un bagliore di senso: nel cammino intrapreso dalla prima parola all’ultima, nel percorso compiuto insieme. Questo viaggio, questo tenersi accanto, è la sola cosa che conta di fronte a Lei, di fronte all’inciampo che porta via le persone che amiamo e (un giorno) noi stessi:

«tutto proseguirà il suo corso nonostante noi, come se niente fosse, come se non fossimo mai stati, e tuttavia nell’ineluttabile corso delle cose che saranno tali anche grazie al nostro essere stati.» 

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