Le dita da accarezzare (Sonia e Guido)

Quando l’auto si fermava sembrava scivolare lentamente. Il profilo, il naso diritto e pallido, il sorriso abbozzato. Era un uomo gentile in quel momento, calmo, dallo sguardo lontano, dal labbro timido e tremante. Sonia apriva la portiera ed entrava. E il profumo di lui era in quel dentro. La guardava piano, appena appena. Sonia poggiava la sua mano sulla sua. Era inverno, il bavero del cappotto alzato, i capelli smossi, bagnati dalla pioggia lenta. Avevano sere sempre uguali, lo stesso tragitto, il cielo che si scuriva presto. In estate Sonia guardava Venere che brillava. Era tutto più leggero. Oltre il suo vestito che si allargava sul sedile. Lui non la amava. Sonia lo sapeva da sempre. Gli anni passavano così, senza l’amore. E la città si stendeva nei loro tragitti, la campagna metteva paura. A volte Sonia piangeva. Era sopraffatta, scostava i capelli, tremava nei pensieri. Sonia che abbassava gli occhi, Sonia che perdeva le ore. Sonia e niente più.
Nella casa buia lei lo cercava. Lui la stringeva. Le diceva che sarebbe andato via. Che altre città lo attendevano. Che era meglio lasciarsi. Le sollevava il mento, la baciava malamente. Sonia respirava pianissimo. Il suo corpo magro, la tosse, la sigaretta di lui che si spegneva e bruciava sul posacenere, tutto era come una fine. Sonia non vedeva i mobili, non sentiva gli odori, credeva che lui la potesse tenere vicina. Credeva in un tormento. La lampada dalla luce bassa copriva le imperfezioni dei loro corpi. Sonia bianca e dorata. Lui sofferente. Sapeva. Sonia non sapeva.
Pioveva e tornavano ai loro letti. Era notte nei loro incontri, solo notte. Lo fu a lungo. E poi finì.

Quando la donna si sedette era un giorno di sole siciliano, poi si fece sera dietro la finestra e i monti divennero blu. Fondi. Le luci nitide, l’estate che finiva con furia. Lei aveva lasciato la sua casa sul mare, chiuso il portone alle spalle, a terra le foglie bagnate da un temporale imprevisto, il freddo sulle spalle. Il freddo lungo il suo collo. E adesso stava ferma e guardava. La finestra dove Guido si affacciava aveva le luci spente. Lui non esisteva da anni lì. Ed erano stati anni veloci. La donna ricordava il suo busto appoggiato, il volto che si intuiva pallido. Il capo e la mano a salutare. Guido era lontano. Lei era rimasta sola. In quella casa di luce. Dietro tende spesse o trasparenti. Guido viveva leggero. Lei no. Lei aveva i monti vicini e le nuvole basse. Il vento e i muri le auto in domeniche silenziose. Guido usciva passeggiava lavorava guidava si rabbuiava. Lei dolorava. Intensamente. Lentamente. Consumando tutto.
I divani e le sedie, i tavoli ampi, i libri nel disordine, gli abiti appesi, specchi e armadi, capelli sul pettine, biscotti sbriciolati, le cose al solito posto, le scarpe mai più messe, il volto che smagriva, gli occhi gonfi. Indossava vestiti colorati, cenava appena il sole tramontava, sorrideva al suo volto specchiato, leggeva libri dalla copertina bianca, e aspettava. Le attese per Guido non esistevano. Per lei erano la vita ricomposta, erano strada e tetti e palazzi e alberi ai margini delle vie. Erano una finestra chiusa, una luce spenta. Ma rideva. Di notte. Nel buio. Rideva ed era sola. Guido lontano. Lei, sola.

Quando maggio si fece ventoso Sonia e Guido si videro. C’erano alberi con foglie e fiori, auto lente e silenziose alle orecchie di Sonia. C’erano bambini che andavano a scuola, vocianti. E mamme legate alle loro manine. Sonia sapeva che avrebbe visto Guido velocemente, con i suoi “no”. Guido pallido che arriva di corsa, giovane e vecchio. Loro sono senza età, fermi sul marciapiede, hanno il vento che solleva le gonne, smuove le sciarpe leggere, scompiglia i capelli. È una città senza mare, di pochi alberi, di pietre ed erbe selvatiche. Sonia indossa occhiali scuri e una maglietta scollata sul seno. Guido ne guarda il solco lucido, il tremore di quella carne color avorio. Il desiderio nei suoi occhi, le mani che si fermano a stento. Sorride e tutto si ferma in quell’attimo. Sonia e Guido fermi, tremano. Le dita da accarezzare. Il tempo che si allunga mentre la città risuona, intorno i passanti veloci, il mattino che comincia frenetico. Le loro mani simili, il bianco della pelle. Le guardano. Insieme. E poi si salutano. Guido che non può amare. Sonia che torna a casa e apre un libro. Nel silenzio. Perché il giorno passi in fretta. Perché il cielo si rabbui, e le nuvole di primavera si addensino. Perché possa dormire e scordare. Solo scordare. Questo le resta.

Quando danno le spalle alla strada il caldo sembra più intenso. L’aria ha sussulti. Il sole però cala piano dietro il ponte. Sonia sa che ha perso. Che ogni pensiero ha da restare solo. Che niente le rimarrà di questi incontri: non il profumo dentro l’auto, non quello degli alberi di primavera, non le notti nella casa sul mare. Non le mani bianche. O il pallore di certe mattine. Guido ha rimorsi, disordini e confusioni. Non vuole pensare. Né amare. Ogni giorno che passa diventa importante per lei, per lui un peso da scrollare. Guido passeggia con Sonia, nella sera di luglio. Non guarda, é distratto. Sonia ha occhi grigi a fessura. Spalle che si piegano. Passi brevi e poi lunghi. Non può neanche sorridere. A casa scriverà una lettera lunga e bagnata. Guido non la leggerà. E ci sarà silenzio fra loro. Le finestre chiuse e vuote. Le nuvole a premere sui monti, l’inverno di pioggia e solitudine. A questo pensa Sonia. Guido non vuole pensare invece. Fuggire sarebbe più facile. La città si illumina, nel luglio inoltrato, nel cielo che stenta a farsi nero. Ombre e qualche stella. Sonia dorme. Senza pace.

Quando Sonia avrà un figlio, un bimbo bianco e magro, Guido non andrà a vederlo. Non subito. Guido ha già figli che lo attendono a casa, deve tornare tutte le sere da loro, deve vivere felice.
Sonia tiene in braccio il suo piccolo bambino, parla e sussurra parole che Guido non immagina.
Lo porta nei pomeriggi di maggio in un viale di tigli ombrosi, cammina col passeggino e crede di incontrare Guido. Lo vede in ogni passante in ogni uomo pallido e magro. Ma lui non la cerca. A lei mancano le parole necessarie, a lei manca il futuro. É stanca e cammina piano. Guido a volte la pensa, con distacco, chiusa in un vuoto. Lei esiste per poco, il bambino ancor meno. Si corica tardi la sera e sente un gran freddo Sonia. Guido si corica presto e si rivolta nelle lenzuola, la moglie lo accoglie, serena. Sonia dorme senza un uomo, il bambino piange lentamente, cullarlo é facile. Sonia culla anche Guido, o così crede.

Quando Sonia si guarda allo specchio vede occhi lunghi e stretti. Una bocca morbida e rosa, capelli leggeri. Il collo sottile che si piega. Le mani piccole che stringono il bavero del cappotto sono simili a quelle di Guido. Ora il loro bambino tiene le sue come farfalle e le sbatte e le stringe. Sono di gesso morbido, di pongo modellato. Sonia si affaccia alla finestra e canta una canzone. Ha la città davanti, la luce e la campagna che si fa azzurra sotto le nuvole dense. Guido lavora, la sera la va a trovare, velocissimo. Un incontro senza baci. Il bambino lo riconosce e affonda la testa nell’incavo della sua giacca ruvida. Stanno in silenzio insieme, loro tre. Come sconosciuti.
“Siamo un nulla” pensa Sonia, chiudendo la porta. Guido torna a casa. Sonia dimentica di essere madre, si abbandona sulla poltrona e non sente la voce del piccolo che strilla improvviso. Lei giace. Non vive. Sonia partirà – presto. Partirà. E sarà per sempre.

Quando il figlio dormiva Sonia toglieva la polvere che si posava sui mobili. Poi raccoglieva i suoi abiti, le scarpe, i libri, i profumi e li metteva pian piano, giorno dopo giorno, dentro la valigia. Per partire e non tornare. Per vivere lontano da Guido. Per non vedere il suo sguardo che si insinuava in certi pomeriggi sonnolenti, con la città sgombra, il sole sfacciato e le finestre socchiuse. Lui scostava il lenzuolo e la guardava. Gli occhi a possedere quegli attimi e niente altro. Lei lo pregava senza dire parole, ma lo pregava. E lui forse sentiva e rispondeva con i suoi “no” che pesavano e facevano voltare Sonia. Le sue spalle sobbalzavano. Guido scappava. La camicia ancora slacciata, il volto stropicciato, il cuore dal battito svelto. Sonia restava ancora sola. Poi fissava la valigia e immaginava la sua partenza. Guido non voleva sapere, non voleva ascoltare. Il bambino aveva ciglia abbassate, guance abbozzate, iridi azzurre. Sonia amava il suo pallore. Amava Guido, nel suo viso. Poi dormiva, esausta. Per tutto.

Quando il biancore di Guido svaniva, lei sentiva l’odore del cognac, le sue unghie appuntite e avvinghiate, i segni rossi sulla pelle per giorni. Passava il suo dito sui segni e piangeva, per ogni ferita che restava sul corpo, per quel Guido che ancora sostava e mai si spegneva. Ma la valigia restava aperta e loro due la guardavano senza parlare. Sonia sapeva dove andare. Una città col mare, una casa con persiane e stanze vuote. I pochi mobili, i divani sparsi, le finestre spalancate sul golfo. Guido sarebbe rimasto lì invece. Lì dove la campagna dalle erbe selvatiche si riduceva e stringeva, dove le strade erano strette ed appese. Dove aveva la sua famiglia, i figli in attesa, la moglie accogliente. Due vite diverse. Sonia voleva partire e voleva restare. Mai lasciare quel volto, quei capelli scuri, quelle mani lunghe e chiare. Era quello il suo amore. Grande.

 

in copertina un’opera di Britt Snyder

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