Anteprima
Riflessioni di metodo
Prima di dare seguito a questo percorso didattico dedicato al linguaggio della poesia e al suo incontro con la musica, vogliamo precisare qual è stata la motivazione che ha costruito la prospettiva da conferire a questo volume. L’insegnamento non è certo un percorso unilaterale, ma piuttosto un dialogo, animato dal desiderio di conoscere insieme all’allievo. La condizione ottimale per curare la formazione di giovani cantanti lirici e compositori è certamente quella di far capire loro l’importanza di coltivare e disciplinare un percorso di studio prettamente creativo, sensibile a molteplici sollecitazioni subordinate all’osservazione del mondo, alla lettura, alla comprensione profonda del linguaggio poetico, fonte inesauribile di conoscenza dell’animo umano. L’idea della poesia è necessaria alla musica come la musica è fonte vitale di poesia.
La parola lezione è una parola da amare, da porgere con generosità a chi s’appresta a crescere fisicamente e spiritualmente. Se consultiamo il vocabolario della nostra lingua italiana, il significato di tale termine riporta al latino: lectio-onis: lettura, e al verbo legĕre: leggere. Chi leggeva al tempo del monachesimo altomedievale erano i monaci impegnati a dire ad alta voce le parole impresse e miniate sui sacri codici di pergamena. Quella lezione che nel campo della Scolastica si definì come lectio, comportava l’atto di spiegare oralmente il contenuto delle Scritture con la finalità implicita di formulare una quaestio, una questione da discutere e verificare ricorrendo a una serie di domande alimentate dal dialogo tra docente e discente. Una connotazione mobile dunque nell’obbligo di veicolare il sapere, curiosa nei confronti della realtà considerata un campo d’indagine entro il quale verificare possibili soluzioni idonee a conferire concretezza al pensiero astratto. Nel Medioevo l’uomo imparò ad accostare il divino all’umano, l’ineffabilità dell’immaginazione alla concretezza dell’osservazione. Un meccanismo fondamentale per foraggiare la creatività. Chiari esempi a riguardo inframmezzano la Commedia dantesca nel bisogno che spesso spinge l’Alighieri a spiegare il contenuto letterale del poema ricorrendo a similitudini prelevate dall’esperienza quotidiana. Dante nel V canto dell’Inferno, per rendere concreta la bufera infernale che condanna le anime dei lussuriosi, ricorre ad alcune terzine nelle quali spiega le caratteristiche del volo degli storni e delle gru:
«E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per ch’i’ dissi: “Maestro, chi son quelle
genti che l’aura nera sì gastiga?”».
Rileggendo la poesia ci accorgiamo come la similitudine costituisca un’importante strumento descrittivo predisposto per creare immagini e suggestioni. Dalla realtà si passa subito all’immaginazione, alla percezione di un ritmo che scandisce il volo degli uccelli, di un suono che ne riproduce la voce. Questa similitudine è già una partitura sonora e visiva.
Parlare di poesia e di musica in quanto rapporto dialettico finalizzato alla creazione di un’unica forma espressiva, quella poetico-musicale, vuol dire prospettare a chi legge un percorso cognitivo aperto a stimoli concettuali ed emotivi atti a stabilire una pratica d’invenzione e d’espressione. In questo volume, dunque, scoprirete alcune “sollecitazioni” in grado di stuzzicare la creatività e l’emotività. Non è possibile lavorare con giovani che studiano canto o composizione con l’obiettivo di intraprendere una carriera professionale nell’ambito del panorama artistico, se non si sperimenta insieme un percorso formativo duttile e dialogico. È necessario che l’allievo di canto comprenda a fondo il senso poetico di un’aria, di un madrigale, di una canzone, così da arricchire le proprie potenzialità interpretative. Stessa prospettiva seguirà il compositore, al quale si chiederà una maggiore conoscenza della metrica dei versi, della retorica, di un gusto inventivo che possa metterlo nelle condizioni di unire la poesia alla musica. L’esercizio di un’arte riguarda l’apprendimento di una tecnica funzionale a mettere in moto tutte le abilità emozionali dell’animo umano.”
“La sezione conclusiva di questo volume raccoglie una serie di testi per musica nati da una personale e preziosa collaborazione teatrale e didattica con diversi colleghi e compositori: Angela Arcidiacono, Puccio Cantone, Alfredo Caponnetto, Giovanni Catalano, Filippo Consoli, Marina Leonardi, Renato Messina, Carlo Minuta, Corrado Neri, Joe Schittino, Giovanni Tralongo, Ornella Todaro, Alessandro Maria Trovato, Antonino Visalli. Alcuni di loro sono stati anche miei alunni di Letteratura poetica e drammatica e di Analisi delle forme poetiche. Abbiamo dunque diviso e condiviso insieme ore di piacevole lavoro creativo e reciproca crescita artistica. L’incontro tra musica e parola ha sollecitato sempre in noi un confronto stimolante e formativo, dato che non esiste migliore scuola di quella proposta dal dialogo. Una parte di questo percorso di studio, rivolto alla messa in opera di molte idee letterarie, è stato condiviso con la classe di Composizione dell’Istituto Vincenzo Bellini di Catania, curata dal maestro Giovanni Ferrauto. Ringrazio tutti i musicisti e la Villaggio Maori Edizioni per l’esplicita richiesta d’inserire tali lavori all’interno di questo volume. L’interesse per ciò che è realmente nuovo, specie in questo presente piuttosto accomodante e incline alla pratica del remake, fa sperare in un piccolo balzo in avanti, tra pentagramma e cuore umano, rivolto a un’arte fertile e libera”.
La poesia: un’idea precisa ma non troppo.
Definire la poesia, o meglio il senso che la rende tale, è in realtà più semplice di quanto si creda. La poesia è vicina al mistero della vita, affina la sensibilità, lo sguardo dell’artista sul mondo, rappresenta la creta del linguaggio. Scorrendo le pagine della storia della musica molti autori hanno sentito la necessità di nutrire la propria individualità di poesia. Pensiamo a Schumann, Schubert, Liszt, Wagner, Chopin, Berlioz e a tanti altri che incontreremo nel corso di queste pagine.
Ancora una riflessione:
«Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome,
e per citarle bisognava indicarle con un dito».
Quest’immagine di Gabriel Garcìa Marquèz si riscontra nella prima pagina quell’immenso capolavoro che è Cent’anni di solitudine. Il “mondo recente” di cui parla l’autore è quello di Macondo, un luogo arcaico dello spirito e della materia, una terra appena creata, dunque una terra ancora odorosa di vergini spore di poesia. In questo dito che indica ciò che è ancora innominato, possiamo ravvisare il gesto desiderante della scrittura poetica. È un dito che appartiene ad un’umanità elementare, a un bambino ancora muto ma pronto a stupirsi. Egli non sa cosa dire ma vede e desidera conoscere le cose che lo circondano. Nel gesto del dito muto che indica ciò che ancora nome non possiede è coinvolta una sensazione indicibile, tale sensazione invoca un suono sconosciuto che produce al corpo una vibrazione.
Spieghiamo meglio il concetto.
Immaginiamo di non sapere cosa sia un fiore. Il nostro dito di Macondo, (complice di uno sguardo attento), indica e cattura un’immagine di bellezza, la lingua cerca di rappresentare ciò che vediamo attingendo nel plasma della fantasia. Le sillabe si sforzano di descrivere ciò che gli occhi della mente elaborano. Il dito poi suggerisce alla mano di toccare quella “cosa ignota” per interpretarla attraverso i sensi. Ne scoprirà la delicatezza, il colore, il profumo, la fragilità, la geometria lieve. Con tale azione si percepirà, più o meno consapevolmente, la sua sostanza poetica. Ecco che allora il muto dito di Macondo dà forma alla parola, diventa vox, sperimenta una volontà di significare. Proviamo a trasmettere e a descrivere ciò che “la cosa fiore” suggerisce sforzandoci di scegliere delle parole capaci di scandire i momenti del nostro contatto. Per rendere e creare la magia della scoperta poetica non nomineremo mai la parola fiore:
Tra le mani
un filo di nulla
per il vento.
Respira l’aria
del respiro che ascolta
l’estasi composta
di una schiusa fragranza.
Su questo esempio organizziamo una sollecitazione creativa. Invitiamo chi legge a descrivere (senza mai nominare): il mare, un libro, un albero, un cuscino.
La poesia dunque appartiene ad un mondo primordiale ancora generoso di bellezza. La poesia vive nelle immagini per comporsi nel gioco delle metafore, delle analogie e della musica. La poesia nasce nel momento in cui la lingua che la costruisce si sforza di conoscere l’arcano attraverso un atto desiderante. Dalla percezione di un’immagine esteriore, scatta la creazione di un’interiore lingua poetica soggettiva e al contempo universale. Lo annota Giorgio Agamben citando Sant’Agostino: «all’intenzione di significare senza significato corrisponde, non la comprensione logica, ma il desiderio di sapere in quanto amore di conoscenza».
Immaginiamo insieme: Un sasso cade nell’acqua ferma di un lago. Cerchi concentrici si susseguono e lentamente tornano a tacere. Un messaggio segreto si propaga liquido sotto le ciglia infinite del cielo: un lieve splash… perfetto ed elegante.
In questa sollecitazione alcune sillabe contengono un suono esplicito. Il suono nasce prima della parola poetica, ma divide con essa un rapporto di reciproco e complice incanto. Lo chiarisce Giorgio Agamben a proposito della presenza dell’onomatopea nella poesia di Giovanni Pascoli. «L’onomatopea è l’esperienza del cogliere la lingua nell’istante in cui riaffonda, morendo, nella voce e la voce, emergendo dal mero suono, trapassa nel significato». La lingua di Pascoli dunque ricorrendo all’onomatopea, nasce per morire e morendo ritorna in suono per essere di nuovo presente oltre e dentro ogni apparenza. Essa si fa anima dell’umano e delle cose che lo circondano.