“La scrittura di Trischitta mi dà una sensazione di forza, di invenzione, di originalità di taglio narrativo. C’è una capacità di entrare subito nel tema e di coglierne gli aspetti più importanti che è molto rara e che per me è il segno inconfondibile di uno scrittore autentico.”
(Giuseppe Pontiggia)
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Ci eravamo conosciuti nel 1989 ad Aci Bonaccorsi grazie all’amico poeta Antonio Di Mauro e da allora non mi ha più “abbandonato”. È grazie a lui che ancora oggi scrivo con umiltà e pazienza (che definiva la virtù degli eroi), sempre prodigo di consigli e incoraggiamenti. Intorno alla fine del 1996, dopo anni d’inattività, perché non credevo più nella scrittura, preso dall’insonnia iniziai a scrivere una raccolta di racconti dal titolo “Le lunghe giornate”. In maniera frenetica narravo le giornate decisive dei personaggi tra i più disparati, di un prete, di una prostituta, di un camionista, e così via. In pochi giorni la raccolta fu finita. Mi illudevo. Un’altra notte ritornai a scrivere, era venuto il momento di raccontare “Le lunghe notti”, di altri esseri disperati che raccontavano le loro notti. Li mandai a Pontiggia e dopo una settimana ricevetti una sua telefonata, li aveva letti e mi esortava di non pensare più a smettere, gli erano piaciuti. Si prodigò a segnalarli a varie case editrici, senza informarmi però, perché un giorno mi scrisse che l’attesa provoca frustrazione e impazienza. Un giorno, dopo la sua morte, me lo rivelò Antonio Franchini alla redazione di Mondadori, di come Peppo si era prodigato per questa mia raccolta.
Anni dopo, durante un’edizione del Premio Brancati di Zafferana, ci tenne a presentarmi Vincenzo Consolo, un altro grande che ci ha lasciati troppo presto. Perché Peppo era scrittore e uomo generoso, ultimo esponente di una stirpe nobile che non disdegnava di scoprire giovani talenti. Grandi figure estinte che avevano un ruolo decisivo nel fiutare nuovi fermenti nel panorama letterario italiano che invece, ormai, è diventato povero e sterile, dove la qualità stenta a farsi riconoscere.
A distanza di molti anni sono ritornato a revisionare la raccolta, perché in cuor mio speravo di pubblicarla, come impegno personale e come impegno nei suoi confronti. Anche per questo ci manca, mi manca, Giuseppe Pontiggia.
Le lunghe notti sono attraversate dai personaggi più estremi, prostitute, assassini, alcolizzati, tutti legati dalla casuale imprevedibilità del male di vivere. Figure penitenziali alla ricerca di un senso. Esistenze infelici che vacillano sul baratro della notte più cieca. Decideranno di cambiare pagina, di dare una svolta alla loro vita miserabile. In un solo giorno, in una sola notte, nulla sarà più come prima. Forse li spinge il desiderio inconscio di espiazione di una colpa, un pentimento che però arriva troppo tardi, perché un destino già scritto alla fine deve compiersi. Le lunghe notti è una raccolta di storie di chi vive male e troppo in fretta.
Segue un estratto dal libro Le lunghe notti, avagliano editore.
DEL PRETE
Il prete si alzò di buon’ora, strinse il crocifisso che aveva in tasca e lasciò l’appartamento di via Piemonte. Prese il 64 e scese in prossimità di San Pietro. Il caldo implacabile lo sorprese e avvertì un malessere al capo, si asciugò la fronte sudata quando vide, di fronte, maestosa la Basilica. Non riusciva a spiegarsi la grande folla di turisti di quel giorno d’agosto. Erano scaglionati in due file ai lati estremi della chiesa ed entravano a poco a poco, controllati dalla guardie svizzere, nel più grande tempio della cristianità. Non si ricordò più per quale motivo era giunto fin lì, di sicuro si scoraggiò e prese la strada del ritorno. Salì di nuovo sul 64.
Mi accorsi di essere attratto dai ragazzini quel giorno che andai in gita con una classe media nel 1978. Giungemmo al Terminillo dopo due ore di bus, i ragazzi avevano fatto baldoria e cantato tutto il tempo. Ai piedi del monte alcuni di loro si dissetarono dalle borracce di alluminio mimando gesti plateali di sollievo. Le loro manifestazioni di cameratismo mi eccitarono. Avrei voluto abbracciarli tutti, stringerli a me, ma fu in quel momento che mi sentii infelice. Mi proposi, cristianamente, di soffrire. Li avrei guardati e solo con il pensiero toccati per tutto il resto della mia vita. Oggi che ho sessant’anni sento che la mia espiazione vacilla.
Trovò posto accanto a un giovane nella parte posteriore del bus. Il prete cominciò ad osservarlo con maniera discreta, mimetizzando lo sguardo attraverso i suoi occhiali scuri. Il giovane uomo non doveva avere più di trent’anni, era attraente con il viso abbronzato e due occhi verdi. Il prete avvicinò la mano tremante alla coscia dell’altro, cominciando a sospirare lievemente. E fu in quel momento che il ragazzo tirò fuori dalla tasca un tesserino rosso, se lo girò tra le dita sotto gli occhi del religioso. Era un tesserino di pubblica sicurezza, dell’ordine dei giornalisti? Chissà. Di certo l’uomo in tonaca ritirò la mano e sudò.
“Mi scusi signore per il mio gesto stupido, sono stato imprudente. Prima che io scenda voglio rassicurarla, è stata una debolezza, non mi era mai successo prima”.
Il prete avrebbe preferito cento volte che l’uomo fosse stato un poliziotto perché non avrebbe potuto raccontarlo, se non ai suoi amici o colleghi. Da quel giorno sfogliando il giornale e leggendo articoli riguardanti molestie sessuali si sentì protagonista colpevole di quei fatti. Non aveva più nulla da espiare, tutto era fallito.