Si può dare vita a qualcosa di bello a partire dalla propria cuoca.
(Vuillard)
Strutturata in quattordici brevi prose poetiche organizzate in tre sezioni, Le parole semplici di Fabrizio Bernini (Stampa 2009, Collana “I quaderni”, a cura di Maurizio Cucchi) accompagna il lettore in un microcosmo in bilico tra modernità e passato, dove, come dice l’autore “le parole semplici, per me sono come le cose che mettevi insieme nella vita. Da oggetti apparentemente inutilizzabili tiravi fuori qualcos’altro. Li combinavi e nasceva una nuova funzione”.
Parole come utensili suscettibili di realtà inaspettate. Felice metafora dell’atto poetico e dell’atteggiamento creativo.
Tra l’anonimo bar di paese e la città vicina, tra la fabbrica ed il giardino di casa, Celeste, il protagonista e voce narrante, mostra un’irrequietezza esistenziale che cerca nei fatti più insignificanti e sorprendenti visioni interiori, nuove possibilità di scelta: “Sono venuto in collina per immaginare l’altra vita. Ignoro come sia il tramonto là in fondo, la grande aura morbida”. Immagine destinata alla lontananza perché il digradante paesaggio lo costringe al margine, “al bordo umano di semplice spettatore”.
“La felicità è attenzione” diceva Simone Weil e viene voglia di riandare a Pessoa, a Bernardo Soares, al suo “(…) io imparo a vedere. Non so perché tutto penetra in me più profondo e non rimane là dove, prima, sempre aveva fine e svaniva (…)”.
Tuttavia Celeste, alter ego dell’autore, è consapevole che qualcosa accade sempre e questo “accadere” viene espresso senza esitazioni in un drammatico e continuo tentativo di afferrare il lato più dolente e tenero dei giorni, il senso indecifrabile della gioia e del dolore, anche quando il dolore è mascherato d’abitudine: “Quando ammazzavo i conigli li appendevo per le zampe e con un colpo di bastone violento e deciso, gli spezzavo il collo”. Le immagini proseguono senza indugi, in una sequenza quasi filmica dove tutto si denuda e si mostra nella sua più intima fragilità: “E ho visto che mi guardava con gli occhi sbarrati e le mani scosse da fremiti”.
Il coniglio non ha mani, ma questa metamorfosi ci mette davanti ad un’amarezza quasi leopardiana perché il dolore “(…) è anche l’unico sistema indispensabile alla vita.”. L’unico ingranaggio possibile. Si commuove e, nella bellissima chiusura del brano, la sua mano “(…) perde forza e si abbandona in un dolcissimo tremore di fanciullo”.
Abilissima e delicata identificazione tra vittima e carnefice, tra attualità poetica e realtà percepita. Come quando si imbatte nella vetrina di una macelleria “Mi immagino che il pollo imbustato dentro il banco frigo sia quello che vedevo beccare nel cortile dell’infanzia”. Schopenaueriana memoria del celebre gatto che “(…) trecento anni prima faceva lì i medesimi salti e mariuolerie”.
Ma è solo l’inizio, perché la vita è complessa anche nelle sue abitudini e in questo continuo gioco di desideri e gesti c’è sempre posto per l’amore: “Qualche volta vedevo passare una ragazza di vent’anni, operaia lì vicino, presso un piccolo opificio dove facevano le bambole (…)”. Questo primo timido guardare lo renderà consapevole che lei, Domenica, l’operaia con gli occhi bassi e pieni stupore “è stata del mio tempo la gioia e la salvezza”.
Una salvezza in prestito perché pregna di responsabilità: “Se io vado in vacanza chi cura le mie bestie? Chi fa l’erba ai conigli, la zuppa per il cane, chi chiude il mio pollaio e annaffia i pomodori?”.
Poesia di improvvise rivelazioni dove lo sguardo tradisce un’immediata partecipazione : “L’autunno con i suoi coriandoli ocra e vermiglio, (…) delle grandi pennellate alla campagna che si spande nel carminio”.
Il paese, la campagna, la fabbrica e quel poco di sicurezza tra le mura domestiche.
Il contesto potrebbe risultare scontato, già visto, ma non è così, perché Fabrizio Bernini non cede mai al facile sentimentalismo, alla scenetta di genere, in quanto mostra tutta l’asciuttezza, la maestria lessicale, l’abilità del colpo d’occhio e, soprattutto, la necessaria e salutare perfidia che sola permette a un possibile presepe di rivelarsi per quello che è: un mondo transitorio, che accenna e si rinnova.
Il ritmo della prosa accelera, rallenta, si fa meditativo con la scioltezza di chi non eccede.
Una voce semplice, L’eredità e Verso la fine, tre sezioni in cui il “racconto”, tragicamente leggero, non segue l’ordine cronologico, ma il frammento, la necessaria brevità.
Consapevole del fatto che, come disse Cézanne, “non si dipingono anime, si dipingono corpi; e quando i corpi sono ben resi, per la miseria! L’anima – sempre che ce l’abbiamo – risplende dappertutto”, Fabrizio Bernini mette a nudo le sottese relazioni tra poesia e realtà, tra realtà e apparenza. Ma cosa c’è dietro, cosa si nasconde nelle “piccole affabili scene della sera”, nei quotidiani e quasi insignificanti avvenimenti raccontati nel libro? Forse il pregio di certe atmosfere degne del “Memoriale” di Paolo Volponi, sicuramente il vero di ogni giorno che non cede mai al pittoresco.
Come osserva Maurizio Cucchi, “(…) nelle sue parole semplici sa aprirsi al mondo e agli altri, fossero anche i suoi pochi amici”.
“Sono stato contadino, muratore, operaio, manovale. Comunista”, dice Celeste.
E viene spontanea la domanda: quante cose volutamente non dette si nascondono in queste brevi prose? In questa apparente semplicità?
Wolfango Testoni
versi scelti da “Le parole semplici” di Fabrizio Bernini, (Stampa 2009, Collana “I quaderni”, a cura di Maurizio Cucchi)
Che quieta e accogliente gioia della sera mi contiene, mi abbraccia
discreta, mentre bevo un calice di vino, seduto qui sull’orizzonte di un
corso fluido di uomini e di passi, teneramente sospeso come un solitario
viandante a riposo, accomodato a un palmo da queste lampadine, queste
vivide e piccole elettriche lune. Guardo in basso e mi lascio trasportare
dal lungo banco ricco e festante di odori, di sapori che si confondono alle
voci, alle mani, alle umane particelle che qui, come nel dilatato spazio dei
mondi, possono trovare un angolo infinito di pace e appartenenza.