«Sul capo turrito sboccia il pruno / antro di umidi rovelli palme / mai baciate efelidi nate appena / nulla dicono intorno al mondo / né discorrono con parole, suoni / tuttavia avvertono che la bocca / sbocca nella stanza della musica». Con la poesia omonima alla raccolta, introduciamo “Persica” di Maria Grazia Insinga, pubblicata nella prestigiosa collana “Opera Prima” a cura di Flavio Ermini, Anterem Edizioni. L’autrice, siciliana classe 1970, ideatrice del Premio di poesia per i giovani “Basilio Reale – La Balena di ghiaccio”, come scrive Bruno Moroncini nella nota critica, cede alla tentazione di conciliare suono e senso: la poesia è per lei «iniziazione al suono per il tramite corporeo della parola».
I versi della Insinga raffigurano la babele esistenziale, «Possiamo solo nascere, erigere / torri impraticabili, torri per lanciarsi / tra i fiati, gli sdruccioli della gola / torri per andare in su a vuoto / torri sdrucciolevoli, torri sirene». Sono avidi d’ignoto, «immersione nella parola / che spacca il miraggio fulvo». Imprendibili, innovatori, ispirati e densi di velatissimi rimandi. Leggendoli sovviene Shelley quando dice che la poesia allarga il cerchio dell’immaginazione riempiendolo di pensieri di piacere sempre nuovo, che hanno il potere di attirare e assimilare alla propria essenza tutti gli altri pensieri, e che formano nuovi intervalli e interstizi il cui vuoto brama incessantemente nuovo nutrimento.
Qual è il ricordo legato alla tua prima poesia?
È il ricordo di qualcosa che non quadra; forse la lingua quando perde il filo e si dibatte in nuovi assetti mentali, scorretti; non disposta a regole, a significati. Tamburellavo le dita sul tavolo ritmicamente alla ricerca di un punto o di un a-capo o di una forma e ripetevo come un mantra «non sono qui».
Serviva con ingenuità e urgenza una mappa di logogrammi (o logosuoni?), una nostografia e un aerostato. Il ritmo era orale, discendeva da un non so che di carsico e sgorgava dopo lunga compressione. Le parole prima o poi accadono, ti accadono le introiettiamo come il cibo o il seno materno per poi proiettarle nell’oralità, urlo, prolungamento di un atto di cannibalismo.
Ripetevo come un mantra «non sono qui» fino a stremarne il senso. E la parola di fronte al suono invece di sminuire il suo potere, lo amplificava in un palinsesto di significati. Ripetevo «non sono qui» e guardavo la foto di una porta azzurra. Ho scritto così la prima cosa in versi, La camera dello scirocco. Una specie di fiato millimetrato sul palmo o musique à boire che testava logogrifi ed esistenze in vita. Era una prima volta. Questo implicava l’inevitabile innocenza che neppure ora so nascondere, asciugare. Era il 2013. Le avvertenze dicono che altra innocenza seguirà.
Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?
Il poeta più significativo per la mia formazione è Bach. Già, sarebbe molto più facile e onesto parlarvi di quanto la musica abbia inciso sulla mia scrittura. Credo nell’autonomia di ogni esperienza interiore ma non credo nelle separazioni. Credo nella differenza di due che dà vita a qualcosa di nuovo in una conversazione che nel non finito ci sfinisce. Coincido con ciò che non coincide ed esula dall’unità. E dunque, Rilke Celan Rosselli.
Ma anche Achmatova Bachmann Bataille Bonnefoy Borges Brodskij Busacca Cacciatore Cattafi Char D’Arrigo Eliot Elitis Mallarmé Mandel’štam Meister Piccolo Pizarnik Pound Reale Rimbaud Ripellino Risset Thomas Villa… Chi dimentico? Stanotte non dormirò. Il sonno avverte anche che non mi perdonerò.
Per Shelley la poesia rinvigorisce la facoltà che sovrintende alla natura morale dell’uomo, nello stesso modo in cui un esercizio fisico rinvigorisce un arto, per Insinga?
I poeti, rose sarmentose: procurarsi una postura, riunirsi in corimbi archi e cascate. E se proprio si deve cascare, farlo in mazzetti odorosi. No, la poesia non rinvigorisce la natura morale. Ha messaggi in sé? O forse la forma è bisognosa di sostegni, bastoncini, cannucce, qualcosa che manca? Non veicola quel che denota ma se stessa – moncanza – e sottopone a giudizio tutti i giudizi. E l’energia di figure, forme, recuperarla con l’oro nelle depressioni saline sulla clavicola, recuperare l’origine ridurre la distorsione col tasto dello strumento, la postura. «Morirai!» dicevano in certe tribù per fede di parola. E si moriva. La postura avverte che davvero si morirà.
Lighea resa all’acqua/ senza rudimenti di nuoto/ – l’afasia – è un infrangersi/ che soverchia la voce. Con i tuoi versi per chiederti: puoi parlarci dei motivi ispiratori del tuo Persica, al di là del chiaro riferimento al racconto (Lighea) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa?
Lasciamo di canto in ordine sparso l’Odissea e la femmina balba, l’ondina siciliana di Goffredo d’Auxerre e pure le «femminote ammaliatrici» di D’Arrigo; lasciamo di canto Eliot e il suo Prufrock e Kafka e Poe di Al Aaraaf e Yeats con la sua Torre; lasciamo Baudelaire e il suo Hymne e lasciamo Undine di Giraudoux e Bachmann e le Sirene sublimi di Basilio Reale; lasciamo infine, Saba, Montale, Gatto e Bellezza e Rosselli e Anaïs e tutto. Lasciamo tutto.
E lasciamo anche Bosch e il giardino di delizie o la caduta di Sant’Antonio e poi Magritte con il suo sogno androgino e le sirene inverse o Delvaux col villaggio o la signora dall’acqua di Munch e Clarke con Ligeia e Guttuso e Picasso e tutto. Lasciamo anche questo tutto. Tanto, non serve a niente.
Cosa rimane? Rimane forse Berio col suo Omaggio a Joyce o Debussy oppure Henze e i Genesis e gli Annihilator e Cave e Hammill e Buckley? O forse rimane la rosa di Celan o quella di Rilke o la candela di Bachelard o quell’eccesso di infanzia? Per non parlare poi della tigre. Non parliamone. Rimane, forse, la purezza fulva? No, non rimane nulla. Nulla che serva a rispondere a questa domanda.
Il vero motivo ispiratore di Persica è lei, ma non lo dirò mai, non posso dirlo. Il motivo ispiratore di Persica è Persica e non c’è niente da spiegare, solo – con Beckett – una voce che parla a qualcuno nel buio. Persica avverte che – do I dare? – lei sta ancora lì, sta per mangiare la pesca.
Se abbiamo da fingere/ che al buio esista un fuori, verso quali approdi può condurci la poesia?
Scrivo senza vedere. Sono venuto. Volevo baciarvi la mano […] è la prima volta che scrivo nelle tenebre […] senza sapere se formo dei caratteri. Dove nulla ci sarà, leggete che vi amo. Diderot, Lettera a Sophie Volland
Al buio non esiste un fuori; al buio, fingere che esso esista. E per la comunione con l’altro, isolarsi; per la visione, perdere gli occhi; per sentire, non prestare ascolto. Il fuori è una presenza in cui l’Io non si riconosce. Ne è attratto perché ignoto, altro. Fuori è un impossibile che lo spazio diastematico della scrittura tenta di raggiungere.
L’approdo è a un sovrappiù di nulla, a un tremore all’oltre, verso il non noto, il non possibile. Spingere all’altro che sta fuori, limite d’esperienza che mai raggiungi e sempre tenti di toccare. Non si canta il tutto noto, ma il mistero, il suo vuoto. Si dia nome all’oscurità, fonte di luce. Rimare ciò che non è accessibile con l’ignoto; rimare la solitudine con quella dell’altro. Oziose le letture in chiave etica: il male è male, il bene è bene, i morti sono morti. Cosa possiamo aggiungere? Se il mondo è già fatto, cosa ancora c’è da fare? Questa è, forse, la postura del poeta: il bastoncino, la cannuccia, la moncanza. L’approdo, allora, è a un altro buio che faccia della crepa un bastoncino, una cannuccia, una porta o ne faccia kintsugi. L’approdo è a limitare in versi i danni del millenario travaso: del bene dal male. L’approdo è la purezza fulva. L’impossibile avverte che dentro l’ignoto è il possibile e la purezza.
Riporteresti uno stralcio di testo nel quale sei solita “trovare rifugio”?
Testo-rifugio e non-testo di estrema poesia, Fisches Nachtgesang (1905) di Morgenstern nella traduzione (!!!) di Almansi (ma anche la fedele non-traduzione di Aldo Merce è notevole). Un calligramma la cui forma ittica è data dal metro trocaico o da ciò che non si vede.
Ossessionata dal non visibile che mi stacca dal mondo, separa dal mondo la parola, la libera, la riconsegna al corpo del mondo tra una carta e l’altra. E tra una carta e l’altra – in fondo, non siete che un mazzo di carte – e tra un silenzio e l’altro, nessun silenzio; e il silenzio allo zero mai vicino allo zero, come la casa sempre vicina a nessuna strada, a nessun rifugio.
Il rifugio in poesia è non trovare rifugio, esporsi al pericolo del linguaggio dove il silenzio deraglia, deraglia il silenzio, il silenzio. Ed esporsi al pericolo del silenzio. Mi vengono in mente i puntini di sospensione presenti in Anna Karenina.
La taglia della cancellazione nella Canzone notturna è totale, totale la nostra cecità, totale il coraggio richiesto. E gli occhi sono quelli del Satiro ebbro di rosso. I suoi occhi all’indietro, perduti a discriminare tutto nell’indistinto avvertono che il rifugio è il morso della persica, Sua Veggenza.
Pensando al tuo essere ideatore e animatore del prestigioso Premio di poesia “Basilio Reale – La Balena di ghiaccio”, ti chiedo: in un’epoca carente di capacità d’ascolto e consapevolezza, per i giovani, ai quali il premio è rivolto, quali sono significato e compito della poesia?
Con la Balena di ghiaccio – premio di poesia per i giovani dedicato a Basilio Reale – la poesia letta e fatta è un fiore di fuoco. Il fuoco disinfetta, lo stelo trattiene il suolo orlandino, tenta di carpirne le voci e le voci sono piccoli semi d’arancia.
Significato e compito della poesia: osserva, rifletti, scrivi, svolgimento. Questo tema è troppo difficile. Non so niente di lei – beckettiana ancora – e di fronte al quesito, ritrarsi. È un tema che ci espone, ci rende visibili. E la visibilità minaccia la postura. Disfarsi della cosa nominata, mancarla? Meglio ritrarsi o ritrarsi? Lazare, veni foras! Un dado potrebbe fissare con un numero il caso, direbbe S. M. La cifra della poesia è forse la rinuncia, direbbe A. R. Avvicinarsi alla poesia, ma per mancarla, direbbe G. B. La parola “morte” manca la morte ed è ancora vita, direbbe M. B. de l’entretien infini. La poesia – con J. R. – è insoumission, diremmo. La parola avverte che disfarsi del nome mancherà parimenti la poesia (?)
Pensando, altresì, al tuo ruolo di insegnante ti chiedo: essendo la scuola sottoposta ad una egemonia performativa, valutativa, di stampo economista, in che modo un insegnante può muoversi per trasmettere ai propri studenti l’amore per la letteratura e per la poesia?
Si crede che la cultura sia una sorta di parco naturale destinato a una élite di visitatori, di visionari. Come se la cultura dovesse essere rispettata tutelata amata solo all’interno di
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questi parchi. Gli studenti disobbediscano ai confini di questa riserva, disegnino fuori dai margini, scrivano tra le righe, tocchino con mano aperta per lasciarsi toccare. I docenti consentano agli alunni di manipolare le parole e le cose, ricrearle. Ringrazio quella maestra, la mia, la sua purezza anche nel nome: Virginia. Fare, dunque. Poesia letta e fatta. Esattamente quello che accade nelle classi di strumento musicale, dove la musica si fa; non per diventare necessariamente poeti o musicisti, ma perché fare musica e poesia dovrebbe essere parte dell’offerta formativa della nostra scuola. Si scriva per padroneggiare suono e segno, per riprodurre e produrre l’opera, per farsi opera d’arte.
Poesia e musica avvertono che sconfinare nelle scorribande del timbro mette a fuoco la nostra vita.
E, ancora, pensando più specificamente, al tuo essere poetessa e docente di Pianoforte, con l’aiuto di Edgar Allan Poe ti chiedo: «La musica è come l’idea della poesia? L’indeterminatezza della sensazione suscitata da una dolce aria che deve essere rigorosamente indefinita è precisamente quella a cui dobbiamo mirare in poesia»?
Hanno cercato di persuaderci che le parole hanno un significato e non un suono, o se hanno un suono, è un suono immorale. Credo che le parole siano certamente un suono, ma non sono sicuro che abbiano anche un significato.
Giorgio Manganelli
Non so davvero a cosa dovremmo mirare in poesia. L’esistenza di più sistemi linguistici – linguaggio parlato, corporeo, musicale – ha sempre bucato di traverso le mie in-capacità relazionali. Conoscere poco una lingua è una vertigine. Siamo colonia bianca del linguaggio, ci colonizza e vibriamo di fronte a questa Musurgia corporea, a questa matrice acustica della vita. È un Somnium Scipionis, un buio interrotto, un viatico astrale al suono che riconduce alla relazione, al fuori.
Siamo ridicoli, dovremmo tacere, evitare gli equivoci, evitare ogni visibilità. E se mirassimo alla forma? Qualora il poeta non avesse vissuto una guerra o una catastrofe nucleare, la sua storia non rischierebbe di essere uguale a quella di miliardi di altre persone? La forma allora dovrebbe essere strutturale al significato dell’opera. Forse il suono – lo scandalo del suono – è struttura del linguaggio. Nel buio, la forma dovrebbe essere un corrimano, l’unico indizio per il lettore. I lettori prestino attenzione, facciano di tutto per meritare ogni piccolo lascito di indizi.
Musicisti e poeti hanno delle ossessioni acustiche e tentano di svuotarsi l’orecchio come nuotatori, come Mandel’štam. La poesia sta nella parola non stesa, preverbale, che non cede in coscienza e non può esistere se non nel dubbio di non aver capito. Il lettore implicito di Iser è implicito alla struttura dell’opera d’arte, ai suoi blanks, gli spazi vuoti, i silenzi con cui dialogare. Il silenzio – mai vicino allo zero – è ancora suono. Il silenzio avverte che dovrebbero essiccare i nostri cadaveri per farne flauti d’ossa.
Per concludere, ti invito a scegliere (riportandola) una tua poesia per salutare i nostri lettori.
Vi lascio con una nascita – che sia propizia – e scelgo la prima poesia di Persica, Partenogenesi. La nascita di una tigre da una tigre, la cui gravidanza non è spiegabile. Una superba solitudine indispensabile alla purezza fulva alla quale la tigre è predestinata. La tigre avverte che la ferocia della poesia non va mai messa in discussione.
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[Partenogenesi]
La tigre voleva solo nicchiarsi nella mano
credo fosse gravida e non esisteva per questo
alcuna spiegazione. Capire da che parte
fosse entrata era impossibile e all’ora delle doglie
senza alcun mondo – se non un delta tra le schiuse –
spaccavo, leggevo a caso le fratture a strisce
il pellegrinaggio, la purezza fulva a me predestinata.