Mary B. Tolusso, “Apolide” per un’apolidia esistenziale che contempla la revisione di immaginari collettivi consolidati”.

«Sarà solo una questione di numeri/ scissi in elementi più semplici,/ meno nobili. Separare il corpo/ conduttore, trattenere solo il plasma,/ declinarlo al vocativo/ naturale, chimicamente/ ridursi all’essenziale». Versi di Mary B. Tolusso (nella foto di Dino Ignani) scelti per introdurvi alla lettura di “Apolide”, edito da “Mondadori”, nella collana “Lo Specchio”. Versi “fluidi”, di assoluta contemporaneità, similitudini concentrate. Versi verso “temi” – ora inediti, ora intramontabili – “trattati”, come nello “stile” dell’autrice, ribaltando gli schemi, con «un sentimento sempre nuovo», con la salda consapevolezza che «non c’è luce per gli indifferenti», che «la parola è/ assenza», che «il linguaggio è povero, un barlume», che «L’atmosfera è audace e drammatica», che «La verità è una cosa indecente». Versi verso «un’apolidia esistenziale, non geografica o politica, che – dichiara la Tolusso – contempla la revisione di immaginari collettivi consolidati, dall’idea di famiglia a quella di identità sessuale, ma anche questioni più semplici, per esempio: chi lo dice che devo volere più bene a mia nonna che al mio gatto?».

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Apolide”?

«Apolide è il frutto di un percorso che intendeva sviluppare l’idea di fluidità. Credo sia un elemento costante della mia poetica: allentare gli schemi, rovesciare le prospettive, non avere saldi punti di riferimento. Quindi un’apolidia esistenziale, non geografica o politica, che contempla la revisione di immaginari collettivi consolidati, dall’idea di famiglia a quella di identità sessuale, ma anche questioni più semplici, per esempio: chi lo dice che devo volere più bene a mia nonna che al mio gatto?».

La poesia può giovare a comprendere (specie in questo tempo odierno, buio e refrattario all’ascolto) “che ad ogni istante abbiamo in mano gli elementi per fare tutti felici”?

«È un verso che introduce l’idea di “limite” umano, in un’epoca appunto che non è certo di super eroi. Ciò che la poesia può fare è proprio rendere consapevoli attraverso un approccio emotivo, perché altrimenti sarebbe filosofia e non poesia. Certo è una possibilità sempre più ardua; non perché il pubblico della poesia sia più ridotto (credo sia sempre stata un genere di nicchia), la differenza però è che rispetto a un tempo il pubblico è meno sensibile alla lingua. Basti pensare che la maggior parte delle persone scambiano testi da parolieri per poesia. Il problema, appunto, è il deterioramento della lingua del popolo».

In che modo (tua) la vita diventa linguaggio?

«Si chiama autofiction, funziona sia in poesia che in narrativa, c’è un’invenzione innestata su una base di realtà. Poco importa se questo o quel testo ci restituiscono la vita dell’autore, conta invece quanto quella vita sia riuscita a divenire collettiva, quanto il lettore vi si possa riconoscere. Ed è qui che entra in gioco l’elemento autobiografico – che naturalmente va manipolato – quale corpo di esperienze attraversate. È necessario scrivere di ciò che si conosce, sono quelle che Stephen King chiamava “fondamenta solide”, altrimenti la casa crolla. È importante perché il lettore è sensibilissimo all’autenticità della scrittura e questa è una questione trasversale, che include tutti i generi. È il motivo per cui un autore su diecimila riesce a scrivere una buona poesia civile, almeno in Italia: chi parla di fame o di guerra senza averle attraversate rischia di produrre molta fuffa che collassa in retorica. Non sto negando l’importanza della poesia “impegnata”, dico solo che è un terreno scivoloso. Personalmente amo la poesia civile di Giovanni Raboni, laddove un dato esistenziale, come un’amicizia, riesce a creare un cortocircuito che ci restituisce una poesia politica. Sono meno sensibile a testi come “Il cinque maggio” di Manzoni o “Alla mia nazione” di Pasolini».

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

«Da Montale in poi è difficile non considerare il “varco”, anche se Montale in fondo non si è mai negato totalmente la possibilità che le cose, come scrive, siano vicine “a tradire il loro ultimo segreto”. La storia della letteratura ci insegna quanto i poeti siano ossessionati dall’invalicabile e abbiano usato diversi espedienti; il più fertile in tal senso è indubbiamente Zanzotto. Ma appunto è questione complessa, che può declinarsi in vari modi, sebbene l’obiettivo sia forse sempre lo stesso: indagare i dintorni del nulla. C’è chi si apre a una dimensione metafisica, c’è chi riesce a rimanere ancorato a terra. Per tutti comunque sono previste muraglie “con cocci aguzzi di bottiglia”».

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?

«La forma è tutto, la forma è mezzo ed essenza del linguaggio poetico. Come ho già detto però deve essere autentica e deve corrispondere anche a un’invenzione. Per fare un esempio io trovo più autentico il Raboni di “Le case della Vetra” rispetto a “Ogni terzo pensiero”, nonostante in quel periodo egli avesse dichiarato che concepiva la poesia solo sotto forma di sonetto. La questione comunque, dentro la metrica o meno, riguarda anche una sorta di resistenza di fronte al pericolo novecentesco del qualunquismo formale. Come dice Pier Vincenzo Mengaldo, non esistono versi liberi, ma una metrica libera, per dire che anche i versi sciolti rispettano delle regole».

Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?

 «Di scrivere solo quando è davvero necessario»

Pensando ai tuoi versi “L’essenziale era nascondersi nel sonno/ dove il tempo non dura.”, ti chiedo: qual è stato, anche da lettrice, l’insegnamento sostanziale ricevuto (ad oggi) dalla poesia?

«Scrivere bene significa anche pensare bene. Vale per tutta la scrittura artistica, non solo per la poesia. Ricordo la prima volta che lessi un testo letterario: avevo dodici o tredici anni e fui colpita dalla bellezza, ero stupefatta che dei segni potessero evocare in modo così assoluto un’idea di bellezza. Sono passati quarant’anni da allora ma credo ancora in questo, che la poesia appunto ci restituisca la bellezza, quella più alta, quella anti consolatoria, quella che ti avvicina a un piccolo spicchio di verità destrutturando i luoghi comuni».

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal libro “Apolide” – (riportala gentilmente) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

È una poesia scritta quando è morto David, il gatto che ho amato di più. Talvolta mi diletto a disegnare, ma solo gatti e solo sulle buste da lettera di diverse dimensioni, per cui la visione di quelle illustrazioni mi ha immediatamente riportato a David e all’idea estrema di amore e fedeltà assoluta, cosa che ritroviamo negli animali, non negli umani. La scena descritta si è costruita da sola, molti di noi hanno vissuto questa esperienza quando, alla fine, hanno dovuto sopprimere il loro animale. Ho descritto l’esatto momento del distacco, è un testo molto istintivo, scritto di getto, poco ritoccato. Al centro c’è David, ma credo sia la sensazione che chiunque vive nel momento del trapasso di un animale o di una persona amata: il rifiuto della morte e insieme la futura convivenza di vivi e morti. Quanto parliamo con i nostri cari estinti? Forse di più che con i vivi».

La stagione si appendeva agli alberi in una sconcia
confidenza con la terra. Era il giorno fedele ai nomi,
disegnavo quattro corpi sulle buste delle lettere,
perché la vita è poca e tu scomparso eri un luogo intero.
Lo vedi questo cielo impasticcato? Allucinato
verso un bianco crudele che è il bianco
delle palpebre, il bianco della gola quando
qualcuno ha detto «Adesso è pronto». Ma
io non ci credo, nessuno è
pronto, un istante sulla Terra, nessuno
è pronto, era nostro il perfetto insieme, il tuo nome,
la finestra aperta, amore mio cosa sta accadendo?
Cosa deve avvenire? Questa morte non esiste.

Mary B. Tolusso vive tra Milano e Trieste. È autrice dei romanzi L’imbalsamatrice (Gaffi, 2010), L’esercizio del distacco (Bollati Boringhieri, 2018) e delle raccolte  poetiche L’inverso ritrovato (Lietocolle, 2003), Il freddo e il crudele (Stampa, 2012), Apolide (Specchio-Mondadori, 2022). Ha tradotto Giacomino da Verona per il volume Visioni dell’aldilà prima di Dante (Mondadori, 2017). Alcuni suoi versi e racconti sono presenti in antologiche tra cui Poeti dopo il Duemila (Mondadori) e I mari di Trieste (Bompiani). Ha vinto il Premio Pasolini (2004) e il Premio Fogazzaro (2012). 

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 12.06.2022 pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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