tre domande, tre poesie
Parliamo con l’autrice, Mirella Vercelli, del volume “La solitudine del passo”, pubblicato da peQuod, nella collana “portosepolto” diretta da Luca Pizzolitto e Massimiliano Bardotti (volume a cura di Luca Pizzolitto). Mirella vive – e non vorrebbe altro luogo – nelle Marche, sulle colline del fermano, tra Grottazzolina dove è nata e Sant’Elpidio a Mare, dove risiede da qualche anno, in un angolo mite e silenzioso di campagna volta all’Adriatico ma con alle spalle l’abbraccio dei Sibillini. Nelle pause dal lavoro in uno studio medico si lascia curare e cura un vasto giardino e un piccolo zoo. Ha pubblicato il volume “Racconti 1978-2016”, con Aras Edizioni di Fano (2017); altresì, le raccolte di versi: “Luce piena”, peQuod (2020) e “La solitudine del passo”, peQuod (2023).
Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “La solitudine del passo”, meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?
Questo volume non ha prefazione o scritti di accompagnamento perché nasce di parto urgente, nasce da impulso febbrile a dire, come per un peso troppo grande da portare soli. Ed è il peso di una maturazione faticosa e subita controvoglia, frutto che il sole stana dalla penombra tra le foglie e ingrossa e impolpa, a forza traendolo a compimento del suo ciclo naturale. Da anni chiamava, la vita, a più gravosi gioghi. Da anni fingevo di non aver udito, fino a che, impaziente, ha chiuso ogni altro orizzonte, ed è stato solo il suo volto crudo. Le quattro sezioni del libro raccontano di circostanze forzatamente acquisite come sapienza di vita. Fra tutte la solitudine, duro dettato per la mia infrenabile tendenza alla condivisione, all’empatia ad ogni costo. Solitudine come soglia oltre la quale non è possibile accompagnare né essere accompagnati, per passi che ciascuno deve irrinunciabilmente compiere da solo. È stata la morte inattesa di mia madre a schiudermi questa pagina oscura, il suo dolce ma fermo allontanarmi nell’istante dell’abbandono, unico atto di egoismo che le abbia visto compiere in tutta la vita. E nel medesimo gesto la sua reclamata solitudine generava la mia. Al suo chiudere gli occhi ho avvertito un sentimento di tragica espulsione, di parto definitivo e irrimediabile, una caduta senza fondo, reciso per sempre il cordone ombelicale dove pure il flusso della linfa aveva preso da tempo a invertirsi, da me a lei, nel cambio dei ruoli richiesto dalla sua ormai svogliata adesione al vivere. Mia madre morendo mi ha consegnato il senso del limite che non è concesso trascendere. E poco dopo di nuovo la morte, il volto del bene più caro esanime fra le mie mani, il suo silenzio assurdo sull’erba del nostro maggio in fiore. E quando già ingrossava l’urlo di dolore la debole voce rinata, stordita nel raccontare del breve viaggio oltre il sentiero dell’orto, oltre il cancello sul vuoto rimasto aperto per un ritorno a cui ora è necessario dare un senso, un nome. Ecco, le parole di questo libro si aggrappano alle mura dell’indicibile, picchiano, picchiano senza vergogna, senza pudore di mostrarsi nude, insufficienti, disperate.
La poesia è un destino?
Non saprei dirlo. Forse sì, nel senso che ci può essere una particolare predisposizione a cogliere sfumature, vertigini di profondità dove altri vedono spiagge piatte, e sotto questa lente ogni dettaglio si erge gigantesco sulla scena, esce dalla sfera privata per farsi patrimonio collettivo. Ecco, questo credo possa dirsi poesia: il tentativo di definire l’appena intuibile, di nominare l’innominabile, perché diventi acquisizione comune, riconoscibile per tutti. E nominarsi, anche. Dolorosamente conoscersi, scarnirsi, spogliarsi fino all’essenzialità dell’essere, per restituirsi sinceramente, onestamente nudi. Ma sono sicura che chiunque provi a scriverne o ne legga possa offrire una sua definizione. Spesso per me è preghiera, vissuta nel silenzio, custodita in intimo segreto, con infinita umiltà e devozione trascritta sulla pagina dei giorni. Pianto, e qualche rara volta consolazione.
Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro; e di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (o meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere (nel contesto del libro che l’accoglie).
I versi che vorrei segnalare come primum movens dell’ispirazione per questo volume sono quelli posti ad esergo della prima sezione Senza Orme:
Madre di niente, madre
di nessuno, passo senz’orma
sulla neve recente,
ombra sul prato
che non piega l’erba
golfo, senza la grazia di un approdo.
Sono versi frutto di riflessioni intercorse a più riprese nel corso degli ultimi anni, sulla mancata maternità, ma anche in senso lato sulla labilità della memoria del nostro passaggio terreno.
Il non essere stata madre è sentimento che ricorre anche in altre poesie come uno dei vari volti della solitudine. Il non aver potuto conoscere la gioia di accogliere, il senso dell’abbraccio mancato, di braccia che invano strette sempre ricadono vuote si confonde con la nostalgia per l’impossibilità di trasmettere una eredità di esperienze, di acquisizioni; per il patrimonio sapienziale esaurito nel cerchio della propria vita e di cui in breve si perde traccia. Da qui gli interrogativi sul peso dei passi di ciascuno nell’infinito itinerario della storia, che ha portato all’intuizione degli altri versi:
Vite, passi avanti
della storia quasi impercettibili
inizio e fine mille volte ripetuti
tra un solo inizio ed una sola fine
feti, nel grembo di una indecifrabile
matriosca.
dove vince lo sgomento di essere solo un tratto infinitesimale del lunghissimo cammino, appena un atomo di vita nella smisurata, oscura pancia della storia.
Infine vorrei segnalare questi versi tratti dalla sezione Di spalle, nata dalla progressiva presa di coscienza della malattia di Paolo, mio marito, dal tentativo impossibile e inutile di abituarsi all’idea del venir meno della sua presenza.
3
È già vuoto ritornarmi
dell’abbraccio che ti stringe.
Ma come si può alla morte
prendere le misure, portarsi avanti
sedere prima del tempo
alla mensa del dolore?
Ora che da pochi giorni Paolo non c’è più queste parole tornano col peso della loro disperante incredulità, ora che è necessario accettare il dolore, accoglierlo e se possibile farne aria da respirare, linfa di cui nutrirsi per una vita nuova che si vorrebbe con tutte le forze restituire.