Cettina Caliò, “L’estremo forte degli occhi”, poesia che “somiglia alla preghiera”.

«Che belle. C’è sempre un’intimità che deflagra, un qualcosa di domestico che esplode e apre voragini. Si entra accompagnati da un’immagine lieve e si impara per negazione nel poco a poco in rovina», le parole di Elisabetta Sgarbi scortano “L’estremo forte degli occhi”, nuova (“palpitante”) silloge di Cettina Caliò (nella foto di Mauro Curcuruto), edizioni “La nave di Teseo”. Quattro sezioni per «un destino di cieli stretti», per «il bisogno di restare/ dove l’attesa è assorta», per «luoghi che (…) si fanno destinazione», in uno «spazio che non muta forma, pieno di parole e volti accaduti prima». Versi come segni luminosi di una memoria che si fa casa, «struttura portante/ di questa vita cedevole». Versi mossi da un sentimento di “giustizia” – «l’ubiquità della grazia» – addentro la circolarità della vita, dell’essere, del tempo, del silenzio, delle cose. E, l’amore, viene avanti, anche assumendo inattese apparenze, partecipa (sovviene Zanzotto) della grazia della ginestra che si ostina a fiorire sopra il vulcano («mi sorrido fra le fughe/ del tuo esistermi/ in azzurre risonanze di grigio// e ringrazio ogni cielo»).

“L’estremo forte degli occhi/ mai si stanca la sorte di accadere”, con i tuoi versi per chiedere: la poesia è un destino?

Direi di sì tenendo conto del fatto che la mia poesia è fatta di giorni accaduti, e dentro i giorni accaduti c’è parecchio destino, a mio avviso.

“È perdita/ il bisogno di restare/ dove l’attesa è assorta e la parola/ solo una traccia di matita”, ancora i tuoi versi per chiedere: cosa può “colmare” lo scrivere, meglio, la poesia? 

La poesia colma nella misura in cui trasforma, nel modo che ha di mutare forma alle cose. E accade che questa trasformazione si faccia sutura lì dove la vita apre crepe, causa rotture. Mentre lo dico penso al Kintsugi, l’arte giapponese di riparare, suturare, un oggetto rotto con l’oro. Quell’oggetto rimesso insieme pezzo per pezzo, con i segni di rottura visibili ma sottolineati dalla polvere d’oro, diventa più bello, e più forte.

“Nel tempo muto del mare/ abbiamo nude le mani/ e siamo stretti di vita”, in un tempo dilaniato dall’assenza di ascolto cosa può la poesia? 

La poesia somiglia alla preghiera. Victor Hugo diceva che ci sono momenti in cui qualunque sia l’attitudine del corpo, l’anima è in ginocchio. La poesia è raccoglimento, offre una possibilità di ascolto di se stessi, ci consente di raggiungere e scoprire una parte di noi, affina il nostro udito e la nostra sensibilità. Quindi ci rende presenti a noi stessi e agli altri. E imparare ad ascoltare noi stessi può essere un buon inizio per imparare ad ascoltare anche altri, ed essere reciprocamente presenti.

Con Sartre, domando: L’emozione, ordinariamente considerata come un disordine senza legge, possiede un significato proprio, può essere colta in se stessa senza la comprensione di questo significato? 

Io per natura tendo a controllare tutto, e mi tocca prendere atto di essere perdente su questo fronte. Una cara amica psicologa mi disse che cerco di razionalizzare le emozioni e pare che questa cosa qui non si possa fare… pare che il bello (e il terribile) delle emozioni sia l’impossibilità di controllo. Se immagino le emozioni come un’onda, capisco che la sola cosa che possiamo fare è provare a prendere l’onda di fianco, in modo che ci sollevi verso l’alto, anziché travolgerci. E forse il significato dell’emozione sta proprio lì, in quell’alto dell’onda, è lì che ne cogli il senso: capisci come ti fa sentire.

Qual è oggigiorno il (primo) dovere critico della poesia?

Non lo so se la poesia ha un dovere da compiere, è più probabile che ci aiuti a compiere un po’ meglio il nostro dovere quale che sia, un dovere quotidiano, un dovere in quanto esseri umani, perché ci rende più consapevoli, e lo fa tendendoci una mano, ponendosi delle domande, provando a dire l’indicibile, facendosi specchio. Una persona più consapevole, è una persona migliore per se stessa e per gli altri.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro; di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Intanto grazie per questo spazio che gentilmente mi è stato offerto. Di queste tre, posso indicarvi la prima poesia della raccolta, cioè quella che ho scritto per prima su un quadernetto, come faccio sempre, e che ho rivisto per un paio di settimane. Si trova a pagina 35 del libro, è la strada di lunghe palme. È una strada che ho percorso a piedi per circa un anno, ogni giorno. L’ho vista mutare nella luce, nei colori. L’ho vista con la luna, il sole, il vento, la pioggia. L’ho vista deserta e silenziosa, e l’ho vista chiassosa e brulicante di gente. Ho imparato la forma dei basoli, ho contato le palme, ho visto la loro chioma somigliare a capelli spettinati, a piume indolenti che si abbandonano al peso dell’aria. Dico sempre che il mio rapporto con la parola è fisico perché ho bisogno di toccarla, sul foglio, ma ho anche bisogno di percorrerla, come ho fatto con questa strada, con quel pezzetto di mondo. Devo sentirmici dentro. Nell’andare e venire per quella strada, i pensieri e le immagini che si susseguivano nella mia mente erano tanti, era come vedere un trailer, era come riprendere contatto con me stessa guardando indietro e guardando avanti, con un po’ di timore, un po’ di malinconia, ma anche con un sorriso.

 

 

[Questa strada di lunghe palme]

Questa strada di lunghe palme
che pare orizzonte palpitante
ti somiglia

nell’imprevisto caldo della tempia

mi accorgo che tanto
ti avevo vagato
senza sapere che sei tu
senza sapere che sei sì

sul ciglio labile del nulla

rimane il chiaro mistero
del perché delle tue tante mani

[In quel poco di vento]

In quel poco di vento
ruvido del mio respiro
c’è sempre qualcosa che sei tu

che sempre mi stai pulsante
sulle tempie come perpetuo
avvento

nel tempo muto del mare
abbiamo nude le mani
e siamo stretti di vita

non abbiamo delle onde paura
paura abbiamo del sale

a oltranza
restiamo come nel vuoto
la durata del viso

[E nella profondità del mormorio]

E nella profondità del mormorio
di questo azzurro piovuto
slacciarsi
le scarpe e gli accidenti

piano scolorare e lasciarsi
cadere
dove sai di sole
dove sei tanto casa

 

Cettina Caliò (nella ph in copertina del poeta Mauro Curcuruto) è nata a Catania nel 1973. Scrive poesia e prosa. Traduce dal francese. Cura libri. Ha studiato presso la SSIT (Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori) di Roma e presso la Facoltà di Lingue e letterature straniere di Catania. Collabora con Il Foglio. La sua prosa figura su Antologie letterarie. Ha pubblicato: Poesie (Ibiskos 1995), L’affanno dei verbi servili (Bastogi 2005), Tra il condizionale e l’indicativo (Ennepilibri 2007), Sulla cruda pelle (Forme Libere 2012), La Forma detenuta (Le Farfalle 2018), Di tu in noi (La Nave di Teseo, 2021). L’estremo forte degli occhi (La Nave di Teseo, 2024). 

(la versione ridotta di questa recensione-intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 22.09.2024, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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