«Nel pensiero che si evolve»

Il centro del mondo di Domenico Cipriano  l'EstroVerso

 

 

C’è, nel passo poetico di Domenico Cipriano, un evidente spessore speculativo (da ascrivere, per quanto concerne la tradizione italiana, alla lezione del Leopardi) che sorregge e in certi casi anima la dizione dell’autore irpino, il suo farsi verso sulla pagina. L’incipit di questa nuova raccolta, Il centro del mondo, (Transeuropa, 2014), che segue a quattro anni di distanza il poemetto epico-lirico Novembre, ne dà un chiaro esempio: «Disteso sui miei passi penso / (oltre le nuvole e le luci dei lampioni / alari) col fiato sospeso sulle colline blu». L’azione (o, se si vuole, non-azione) è racchiusa tutta nel verbo principale, penso. Tuttavia, in questi stessi versi, si ha modo di osservare come il pensiero di Cipriano, lungi dal ripiegare su sé stesso, ovvero in regioni troppo rarefatte dell’intelletto, non può scindersi dall’esperienza sensibile, da un vissuto che affiora prepotentemente e che si cristallizza soprattutto nello sguardo del poeta, nel semplice atto del guardare, come nell’inciso parentetico sopra citato: «oltre le nuvole e le luci dei lampioni / alari»; o come nel testo in limine al libro: «Due colmi pezzi di mondo / assopiti si guardano, stretti / alle radici».

Sguardo e pensiero dunque, o, per dirla con il Cucchi della postfazione, occhio e mente, è il binomio di “strumenti umani” (Vittorio Sereni copyright) tramite il quale Cipriano intraprende la sua indagine del mondo per coglierne l’anima, il cuore, il «centro». Impresa certo non facile se è vero che il soggetto poetico di questa raccolta si presenta spaesato «nella ricerca giornaliera / dei passi preclusi dalla mente» e solo ricompattandosi alla «ferita della nascita», che è come dire in una zona interstiziale tra il centro-grembo materno e la molteplicità centrifuga del mondo fenomenico, può osare il ritorno allo «sgomento riposto / per la felicità di essere al centro / del mondo ancora sconosciuto, / o la conquista del ruolo cercato / tra le cose rovistate e forse mai trovato». Non è facile; e forse impossibile perché negli «sprazzi / di giornate incolori, senza dettagli» dove si annida la finzione del «nostro vivere sapendoci vivi», cioè «quel vizio antico / di sopravvivere di passi quotidiani», si fa strada la certezza, esperita personalmente, che questo mondo in rapido, incessante divenire («Moriamo pezzo dopo pezzo mutando») precluda l’accesso a quel centro tanto agognato («Filo spinato / e ruggine sui punti fermi del mondo, / ma nemmeno quello spigolo d’universo / ci appartiene») fin quasi a dubitarne della reale esistenza: «Tu che scavi / incessantemente cosa cerchi da queste / pareti multistrato […]?».

Che sia la mente a scavare in profondità o l’occhio ad abbracciare e catturare quanto più possibile di superficie, lo scacco che si para davanti all’esplorazione poetico-gnoseologica di Cipriano è dato proprio dal mutamento eracliteo della realtà circostante. Concetto che ricorre, con una certa ossessione, in tutta l’opera: «La nostra casa sta cambiando / e non amo conservare nulla / delle vecchie pareti»; «Non è facile accettare il cambiamento / siamo altro e non lo crediamo»; «In questo immenso quadro / in movimento […] / uno spettacolo che muta / lentamente», ecc.

In modo particolare, dove tale sentimento emerge con più nitore è nella sezione Irpinia metafisica. Già l’epigrafe che l’accompagna, mutuata da Tolstoj («Il tuo villaggio è il centro del mondo, racconta il tuo villaggio e racconterai del mondo»), testimonia la fedeltà del poeta verso i luoghi natii nonché la volontà di fare di essi un concentrato-sineddoche del mondo, del proprio mondo: «I luoghi li avverti se li hai vissuti, diventano / parte di te. Non rincorrere i fantasmi / di altra identità, la lama ti ha tracciato sul volto / il segno e ad altro non sai appartenere». A questa altezza, in un Sud remoto e ostile alla presenza umana «dove la terra si contorce» e «la luce abbaglia e deforma», l’idea del divenire si fa percezione drammatica del tempo trascorso e irreversibile («Rivelami cosa si è perduto in questi anni. / […] / È tornare dall’aldilà anche questo, rinascere / in ciò che si è perduto (per un istante di saluto) / e sai che sono vivi solo in parte, nella fissità / dei loro volti»; «Della casa vecchia hai lasciato le pietre / sospese, punti di una scrittura insicura: / sono le cose non dette lasciate esposte / alle pareti e il cemento solidifica intorno») che paralizza il presente («Non viviamo il presente / tre le croci e le diaspore del niente») e lo sospende in una temperatura irreale e, appunto, metafisica con suggestioni iconiche tra Modigliani e De Chirico:

 

In questo immenso quadro
in movimento sul fiato surreale
delle pale, metafisico si disegna
il sole. Le rocce ritrose hanno anni
di visione, uno spettacolo che muta
lentamente: oggi sono i nostri pensieri
a riconoscere il fascino straniero
di queste nuove sentinelle.


Passando dal paesaggio irpino a uno sfondo metropolitano caotico e frenetico (sezione Città degli occhi), si acutizza il disorientamento, esistenziale e conoscitivo, dell’io lirico («nello scenario estivo / non mi accorgo di essere nel centro / della metropoli operante») che però reagisce al mutamento (nel caso specifico, degrado) opponendogli quella ginestra tanto cara al Leopardi ‘napoletano’: «Parli di ginestre come fiori arroccati / non vedi il mutamento: sono luci circolari / della città incatenata i fiori che sopravvivono / alla roccaforte di cemento, allo sgomento / sopportato nei sobborghi metropolitani».

È pressappoco qui che si situa la conquista poetica (cioè ottenuta mediante la poesia) nonché l’approdo della quête di Cipriano: la consapevolezza che al centro del mondo non è possibile giungervi se non tramite il vissuto, l’esperienza diretta di un soggetto che è, cartesianamente, res cogitans e res extensa: «La pelle è il nostro accesso al mondo / cellule morte di un esponenziale senza cure»; e si veda ancora: «Nelle cose che vedo trascinarmi / ogni giorno dalla scrivania alla casa / le ossa sparse tra le bocche dei randagi / e le pietre ferme e pazienti, negli oggetti / che passano tra le fughe degli occhi / riconosco un’anima impreziosita / dalla vita».

In questo nuovo ma sempre in fieri equilibrio io-mondo, il soggetto lirico di Cipriano si scopre esso stesso l’epicentro di una vicenda umana insostituibile, «una stazione che trasmette da un capo / all’altro del mondo», a cui non sono estranei – anzi – gli eventi di una determinata condizione storica che si pone «sotto il disfacimento / della grazia» («Cresce dentro, questo senso di colpa / per ogni evento della storia, ogni violenza / degli uomini o della natura»). È dunque in questa armonia, nella saggezza del lungo percorso compiuto, nella raggiunta coscienza dell’evoluzione di tutte le forme storiche, materiali e spirituali («Le persone sono luoghi / e ogni epoca li ricostruisce»), che Cipriano riesce infine a trovare il suo centro:

 

Esistiamo perché mutiamo. Il corpo
si trasforma con il tempo, così la voce
e l’odore che tutto dice. Conserviamo
poco, diamo segni di noi
nel pensiero che si evolve, nelle azioni
che si alternano, confondendo
i colori che la pelle mostra, variando i suoni
che all’istante diventano parole.
Se c’è una storia da ricomporre
(pezzo a pezzo) è nel modificarsi
delle orme che tracciamo. Così,
solo le cose ferme ci ricordano
dove siamo già esistiti,
anche se il vento cerca di mutarne le sembianze
con la polvere che accumula
in forme disadorne.
Continuiamo a dirci vivi
ostinandoci a non apparire uguali
e questo morire eternamente
è il volto stesso che la vita ci consente.

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