Ogni giorno come fossi bambina

 l'estroverso michela tilli garzanti

l’Autore racconta

Ho coltivato la passione per la scrittura con lentezza, accumulando pensieri e idee, mentre mi dedicavo a cercare una strada da percorrere nella vita e a costruire un nido che mi desse sicurezza. Ho studiato, ho trovato un lavoro, ho messo su famiglia. La scrittura era sempre lì, ben presente nelle mie intenzioni, ma senza fretta e senza ansia. Scrivere era un atto talmente importante e fondamentale per me, che pubblicare non mi sembrava poi così importante. Tuttavia, nel momento in cui ho incontrato il mio primo editore, Fernandel, mi sono resa conto che condividere con gli altri la propria scrittura è l’atto che le dà veramente senso.
‘Ogni giorno come fossi bambina’, uscito per Garzanti, è il mio terzo romanzo, arrivato adesso che ho 40 anni, e segna per me un nuovo punto di partenza. La scrittura ha preso molto più spazio nella mia vita e non è un caso che proprio ora che il romanzo è venuto alla luce io abbia cominciato a scrivere anche per il teatro. Scrivere significa per me narrare, intrecciare storie, dar corpo alla parola, e questo farsi corpo della parola è ben rappresentato dal miracoloso processo che vede un testo andare in scena grazie a degli attori. E infatti in questo romanzo il corpo è al centro dell’attenzione. C’è il corpo di Argentina, donna anziana che desidera ancora l’amore passionale e si scontra con i limiti che il suo fisico le impone, mentre sente avvicinarsi il limite estremo, quello della morte; e il corpo di Arianna, adolescente piena di problemi, che non si piace e si nasconde dietro l’immagine virtuale che può offrire di sé attraverso il suo blog. Per entrambe rimettere insieme i pezzi, ritrovare un’unità tra l’immagine di sé conservata nel ricordo o creata in rete e la persona reale, è una grande sfida. Sfida che decidono di affrontare insieme compiendo un lungo viaggio.
Argentina vive a Milano, ma è nata e cresciuta in Basilicata. Proprio da là riceve delle misteriose lettere d’amore. Con l’aiuto di Arianna e dei giovani blogger romani che andranno loro incontro, cercherà di tornare al paese per scoprire se chi le manda è davvero l’uomo di cui un tempo era innamorata.
Arianna e Argentina corrono incontro ai loro desideri, che sono il motore delle loro vite. Ed è così coinvolgente l’energia che la loro alleanza riesce a sprigionare, che alla fine la soddisfazione dei desideri diventa poco importante, passa in secondo piano rispetto al viaggio stesso.
Mi piace pensare che il senso della vita non si trovi nella realizzazione di ciò che ci proponiamo, ma da qualche altra parte. A volte mi chiedo che cosa sarebbe stato della mia scrittura se il mio desiderio non si fosse avverato, se non avessi pubblicato il primo romanzo. Sarebbe stato così forte, comunque, il mio proposito di scrivere? L’avrei fatto lo stesso, sentendo che era un atto profondamente legato alla mia identità? Ora mi viene abbastanza semplice rispondere di sì, ma quando penso a com’ero fragile quand’ero adolescente, quando guardo i miei figli e i ragazzi come Arianna, tremo un po’ al pensiero che quel grande spazio che hanno davanti, che altro non è che un futuro pieno di possibilità, appaia ai loro occhi come semplice vuoto. Al di là di ciò che vediamo, oltre i nostri desideri, c’è posto per la riuscita ma anche per il fallimento. Ed è per questo che il senso va trovato da qualche altra parte. Questo Argentina lo sa, lei che può guardarsi alle spalle e ha materiale ed esperienza su cui riflettere. Io mi sento un po’ in mezzo a questi due personaggi, con qualche fallimento e qualche piccola soddisfazione alle spalle e molte aspettative davanti. E in questo modo sento che quello che faccio si carica di responsabilità, soprattutto nei confronti di chi è più giovane di me, perché la scrittura si fa testimonianza di una passione che dà sostanza alla vita, al di là delle conseguenze, dei risultati e dei messaggi dei quali di volta in volta si fa portatrice.

 Ogni giorno come fossi bambina tilli su l'estroverso

 

 

Stralci da ‘Ogni giorno come fossi bambina’, Garzanti, Milano, 2015

 

PROLOGO

 

Mi chiamo Arianna e a volte perdo il filo dei miei pensieri e della mia vita. Ma poi lo ritrovo.

Argentina me lo diceva sempre, e rideva. Sei brava a raccontare le storie, mi diceva, fai dei giri, di qua, di là, e mimava i miei giri con le mani chiazzate di scuro, attraversate da vene viola tese tra le ossa e la pelle, con le unghie come artigli, che infliggevano graffi profondi alla carne quando si grattava. Fai dei giri, diceva, però alla fine ritorni sempre a casa. Le piaceva quest’idea del tornare a casa. Come fosse un altro modo per dire: trovare il senso delle cose, chiudere il cerchio, toccare la verità.

Le storie hanno uno strano rapporto con la vita, sembra che si rincorrano, a volte una chiama l’altra, altre volte sembra che la vita e la storia che la racconta si escludano a vicenda. Capita che una storia nasca proprio dove la vita finisce, ma se c’è una cosa che Argentina mi ha insegnato, è che dove ci sono storie la vita rinasce sempre, trova la sua strada, a patto che ci sia qualcuno che le ascolti. È lì, diceva Argentina, nel mezzo, tra gli occhi e ciò che guardano, tra le orecchie e ciò che odono, tra le mani e ciò che toccano, che si annida la bellezza.

 

ARIANNA

 

Era proprio lei quella specie di falena? Dov’era finita la giovane spensierata con il vestito lungo che veniva rattoppato a ogni stagione e si faceva sempre più corto man mano che lei cresceva? Dov’era la donna matura con il seno piccolo e rotondo, che dimostrava sempre meno dei suoi anni? Quando aveva smesso di schermirsi e poi confessare, arrossendo di piacere, la sua vera età? All’improvviso erano usciti tutti allo scoperto, i suoi anni, ed erano tanti, troppi.

Fece un passo indietro, portandosi al centro dello specchio. Aprì il nodo della vestaglia e la lasciò pendere come un mantello. Sotto apparve la camicia da notte azzurra, decorata  con le foglioline blu. Dondolò da una parte e dall’altra come faceva un tempo quando si provava un vestito nuovo. Quanto le piacevano le gonne lunghe, che bello era farle frusciare aiutandosi con la mano, un piede avanti e indietro, e poi l’altro, a tempo di musica, un piccolo inchino, mentre il corpetto le segnava il busto elegante e la scollatura faceva risaltare il collo lungo da cigno, e con i capelli neri legati in alto sembrava una regina. Come le sarebbe piaciuto andare ancora a ballare, vorticare tra le braccia del suo cavaliere sentendosi addosso gli sguardi di tutti i presenti.

Una domenica pomeriggio di tanti anni fa, suo marito Antonio le aveva fatto una sorpresa, l’aveva portata a ballare. Le aveva detto che l’avrebbe portata in un posto nuovo, di mettersi il vestito più bello, e lei aveva fatto finta di non sapere ma invece aveva capito, già le luccicavano gli occhi, nemmeno fosse Natale, e aveva messo anche le scarpe adatte, perché non si può mica ballare con delle scarpe qualunque. Ne aveva tante, di scarpe, e Antonio guadagnava bene, voleva che se le comprasse.

Erano venuti al Nord apposta, per realizzare i loro sogni, soprattutto quelli di Antonio, perché lei sposandolo si era tuffata nella realtà e i sogni li aveva messi via. Antonio non aveva fatto il soldato, non aveva combattuto né da una parte né dall’altra, debole com’era, con il padre emigrato e due fratelli morti, e adesso voleva dimostrare quanto valeva, e questa nuova repubblica fondata sul lavoro sembrava fatta proprio per lui. Milano o l’America per me fa lo stesso, gli aveva detto sua madre, se mi lasci, mi lasci per sempre. Dicevano che avesse provato a trattenerlo anche con l’inganno e che più volte gli avesse mischiato qualche magia nella minestra ed era per questo che aveva sempre quell’aria pallida,

da bambino malato. Ma Antonio era determinato ad andarsene e non tornare più, invece, e aveva giurato che davvero Milano sarebbe stata la sua America. Aveva fatto giurare anche a lei che non avrebbe mai più messo piede in quella terra di barbari.

Che strano non rivedere più i suoi posti, ma era stato meglio così: anche lei aveva qualcuno da dimenticare. Con l’unica che condivideva il suo segreto, la cugina Filomena, Argentina aveva litigato per via delle scarpe. L’ultima volta che le aveva scritto, non aveva resistito alla tentazione e se ne

era vantata, e in risposta lei l’aveva canzonata, le aveva chiesto che cosa ci doveva fare con tutte quelle scarpe, se le strade di Milano sono così dure che consumano le suole. Argentina si era offesa, si era sentita sciocca, e non le aveva scritto più.

Ricordare quella domenica del ballo di tanti anni fa era come vedere un film che girava solo nella sua testa, mentre nella sua vestaglia nuova si guardava allo specchio in camera da letto. Eccoli che entrano, mentre la luce del pomeriggio scolora; si ode un valzer e Argentina si ritrova in una grande balera dalla volta altissima, come se fossero due piani, e tutto è così moderno, con un lampadario bellissimo

che scende nel mezzo come fosse la sala di un ballo reale. Argentina scoppia dalla felicità vedendo l’orchestrina che suona e alcune coppie che ballano già, mentre il grosso della gente fa tappezzeria addossato alle pareti e guarda e aspetta il momento giusto per entrare. Argentina cerca la mano di Antonio, mentre il valzer finisce e subito se ne annuncia un altro, e allora Antonio la invita a ballare con un piccolo inchino e insieme si avviano. Mentre gira e ride, Argentina sa che tutti li stanno guardando e sa anche che li invidiano, perché sono felici, e pensa che è quello far l’amore davvero, non l’intimità del letto che non sa di niente. Mentre vortica si ripete che alla fine forse ha fatto la scelta giusta andandosene via, vuole convincersi di aver fatto davvero la scelta giusta.

All’improvviso un dettaglio attirò la sua attenzione. Dalla camicia da notte spuntavano due zampette ridicole da uccello. Il suo corpo si era prosciugato, le spalle si erano incurvate e il seno si era afflosciato come un’inutile appendice. La sua magnifica testa aveva perso il fasto di un tempo, anche se i capelli erano folti, di un bel bianco, e legarli dietro alla nuca le dava ancora soddisfazione, quando non le

facevano male le spalle e poteva alzare le braccia. E invece, come per miracolo, a volte si svegliava e stava bene, aspettava la prima fitta ma questa non arrivava, e le veniva voglia di saltare giù dal letto, ma si muoveva con circospezione per paura che il dolore si facesse vivo all’improvviso. Allora le

scoppiava dentro una gioia così grande che temeva di esserne sopraffatta e sentiva i secondi che le sfuggivano dalle mani, veloci, sempre più veloci.

Quella mattina era iniziata così, con la smania di vivere, come da bambina, il cuore che le batteva all’impazzata e la sensazione di non poter aspettare oltre per avere… per avere cosa non lo sapeva, non conosceva più l’oggetto di tanto desiderio.

 

LA LETTERA

 

In fondo non era male il lavoro. Superato il primo impatto con lo sporco e con la fatica di riempire il secchio, strofinare o sbucciare le patate, i gesti diventavano quasi automatici e la mente poteva vagare per i fatti suoi, come le donne del paese di Argentina che vagavano tra le nuvole. E se Argentina era in forma, stare a sentire i suoi racconti era appassionante come navigare tra i suoi blog preferiti, forse di più. Tra i personaggi che aveva conosciuto, i suoi favoriti erano i monachicchi, spiritelli burloni di bambini morti senza essere battezzati, che potevano condurti fino a tesori nascosti se solo riuscivi ad acchiappare il cappellino rosso che portavano in testa. Argentina sosteneva di averlo visto da piccola, uno di questi tesori nascosti nel bosco, ma di averlo lasciato lì per paura dei briganti. E poi aveva conosciuto delle streghe, che producevano filtri d’amore con ingredienti schifosi, e raccontava un sacco di aneddoti con l’aria seria e gli occhi ridenti, al punto che Arianna non riusciva a capire quanto ci fosse di vero e quanto la prendesse in giro. Perché che le piacesse prenderla in giro era certo,  ma poiché lei non si offendeva, gli scherzi si erano fatti via via più amichevoli e quasi divertenti.

Una delle stranezze di Argentina era la sua vera e propria ossessione per la posta. Nelle giornate buone, quando Arianna la trovava pronta e attiva, l’uscita per il ritiro della posta era l’evento più importante della mattinata; se invece la vecchia non stava bene, allora l’arrivo del postino diventava una specie di affare di stato. Seduta in poltrona, avvolta nella vestaglia e coperta dal plaid di lana, Argentina non  faceva altro che guardare l’ora e insistere perché la ragazza uscisse a controllare, nemmeno stesse aspettando la risposta di un concorso a premi, e se Arianna obiettava che era ancora presto, allora la vecchia si arrabbiava e dava in escandescenze. A volte, purché la smettesse, Arianna usciva ugualmente,

ben sapendo che il postino non era ancora passato, e tornava alzando le spalle e allargando le braccia con rassegnazione. Oppure faceva solo finta di scendere, per non correre il rischio di incontrare inutilmente i vicini nel portone, e invece restava a contare i secondi nascosta dietro alla porta, in modo da non rientrare troppo presto. E dire che, quand’anche il postino fosse passato, nella cassetta non avrebbero trovato niente di diverso dal solito, niente di più interessante di tristi dépliant pubblicitari, proposte di agenzie immobiliari e sconti del supermercato. La vecchia raccoglieva tutto avidamente, leggeva ogni parola, conservava i dépliant in un cestino e non buttava via niente.

 

Il giorno in cui arrivò la lettera, Arianna si stava placidamente annoiando davanti al computer.

«Il postino sarà già passato, a quest’ora», borbottò Argentina dalla sua poltrona, facendo ruotare sul polso magro il cinturino dell’orologio che cascava.

Arianna controllò l’ora sullo schermo. «Dovrebbe passare tra poco.»

«Lo so quando passa, vuoi che non lo sappia? Abito qui da cinquant’anni!» puntualizzò Argentina agitandosi con le mani sui braccioli come se volesse alzarsi ma non ne avesse le forze.

«Ah, sì. Ora scendo.»

Argentina la fissò sgomenta. «Allora? Vai o no? Che fai ancora lì?»

«Vado, vado.»

 

Aprendo lo sportellino della cassetta della posta fece cadere due volantini. Li raccolse. Due copie dello stesso annuncio immobiliare. Li appallottolò e li gettò in un grosso portaombrelli, già pieno di cartacce. Afferrò il resto. C’erano le solite cose: la pubblicità di un centro estetico che qualcuno aveva distribuito in tutte le cassette, lasciando anche un cospicuo mazzo di volantini abbandonati in terra sotto il casellario, e un foglietto stampato alla bell’e meglio che reclamizzava l’opera di un imbianchino tuttofare. E poi c’era una lettera.

La busta era azzurrina, l’indirizzo scritto a mano. Il mittente, un certo Rocco Pace, di Grassano. La vecchia rompiscatole sarebbe stata felice di ricevere una lettera dal suo paese. Tenendo il sacchetto del fornaio tra le ginocchia, aprì lo zaino e vi ficcò tutto dentro.

Fu sorpresa di trovarsela lì davanti, nell’ingresso, carica come una molla pronta a scattare. Sembrava infuriata. Gli occhi grandi, fuori dalle orbite, le davano l’aspetto di uno di quei cagnetti da salotto che si arrabbiano per un niente.

«Quanto ci hai messo?»

«Sono andata a prendere il pane, quello che le piace.»

«Ma che pane e pane!» sbraitò lei. «Ti avevo detto la posta! Ci hai messo un’ora. E dov’è la posta?» Arianna, impacciata, posò il pane sul tavolino e aprì lo zaino. «C’era una lettera», balbettò.

Argentina, invece di mostrarsi contenta, aggrottò la fronte e rapida come un avvoltoio le strappò la busta di mano.

«Dammi qua, è mia», disse portandosela al petto e, dopo averla fulminata con lo sguardo, a passo  veloce, se ne andò in camera e si sbatté la porta alle spalle.

 

Argentina si sedette sul letto. Le tremavano le mani, strette intorno al suo unico bene, il corpo intero scosso dai fremiti, non più indolenzito, ma attraversato da ondate di energia inutile, destinata a disperdersi, a farsi rabbia e dolore. Stupida ragazzina, pensò. Stupida, stupida ragazzina. L’aveva lasciata ad aspettare come una povera allocca, come una donnicciola innamorata che spasima e guarda  sempre nella stessa direzione, con il cuore che galoppa, verso la verso la porta di casa, da dove potrebbero arrivare segni di lui, e più che di lui sono segni dell’esistenza di lei, di Argentina, della sua stessa vita, perché senza quei segni la vita non c’è, allora e soprattutto adesso che la vita è trascorsa e sta per finire e il desiderio stranamente si fa più urgente, proprio ora che non può più essere soddisfatto, ora che non c’è più un corpo che possa sostenerlo; ma non è vero, non è affatto vero, questo corpo c’è, e c’è vita, finché ci sarà il pensiero dell’amore, l’unico pensiero che abbia attraversato ogni sua giornata, nessuna esclusa, da quando l’ha visto per la prima volta, anche ora che è decrepita, sì, ora come allora, quando piena di speranza guardava verso il portale della chiesa, verso l’arcata sotto la quale lui sarebbe passato.

Era umido dentro la chiesa della Madonna della Neve, dove lei e le cugine si stipavano l’una contro l’altra, al rintocco della campana, prima dell’alba, per la funzione del matinin. Le donne più anziane sono sedute sulle sedie portate da casa, le ragazze come Argentina in piedi alla parete, e i giovani maschi hanno occhi solo per loro, mentre entrano disordinatamente e si fanno avanti, i fiati pesanti di freddo, gesti che si cercano, colpi di tosse.

Rocco non c’è, non si vede. Argentina non sente nemmeno ciò che accade intorno, non sta attenta, più volte Filomena le dà di gomito per farle aprire la bocca insieme a tutti gli altri, ma lei non riesce a pensare ad altro che all’assenza che le segnerà la giornata, le mani rovinate dal freddo e dal lavoro contratte intorno allo scialle. Finché non le giunge una gomitata più forte, diversa, e allora si volta verso

la cugina e segue il suo sorriso malizioso fino al dito puntato, e dall’indice alla spalla di un uomo dall’altra parte della chiesa, laggiù, sotto l’arcata. E dietro, apriti cuore, gli occhi neri che sembrano esistere solo per lei. Argentina, stringendo la lettera fra le mani, si sfiorò il petto, ma gli occhiali non c’erano e nemmeno erano appoggiati sul comodino. Respirò profondamente e si alzò in piedi. I tremori erano passati.

Andò in salotto, guardò sulla poltrona e in terra, dove a volte gli occhiali cadevano dopo essere stati in bilico sul bracciolo. Non erano neppure lì. E allora l’avrebbe letta più tardi, la lettera, e adesso l’avrebbe messa al sicuro, nascosta insieme alle altre.