l’Autore racconta
Cade la terra è una storia di storie, ma è soprattutto una ricerca nella polvere che il tempo come un maniaco ha sparpagliato. È la storia di un paese abbandonato, Alento, e dei suoi vecchi abitanti che ora tornano. È la storia di Estella, ultima abitante del borgo in rovina, segreta guardiana dei muri, che per non soccombere all’abbandono recupera proprio dai muri il filo di esistenze desolate che hanno infuriato per anni e che ora dovrebbero essersi concluse. Il ritorno del tempo e gli improvvisi squarci che ci mettono in contatto con ciò che eravamo, le fenditure nel tempo che non ha nulla di lineare, anche di questo mi interessa scrivere. La realtà, questa parola così minacciosa, è più complessa di uno sguardo su ciò che accade, nel momento in cui accade. Anche per questo vago per borghi abbandonati e case in rovina, cercandovi scampoli di vita. E non importa se sono vite passate.
Mentre scrivevo, ho recuperato brandelli di memoria dagli spacchi nei muri, dai nascondigli delle case piene di crepe che ho sempre avuto intorno. Sono nata in uno di quei posti scampati circondati di abbandono, ne hanno da tutte le parti. Ho vissuto io stessa, da bambina, in una casa che mi dirupava addosso, mentre lentamente dirupavano anche i nonni che mi crescevano. Immersa com’ero nel silenzio – sempre sola, con le ginocchia sbucciate dalle cadute mentre mi arrampicavo su alture improvvisate – varcavo spesso la soglia di una casa abbandonata e immaginavo il ritorno di quelli che l’avevano abitata. Quando ho cominciato a scrivere questo romanzo ho dovuto però nominare di nuovo le cose per farle esistere, e più profondamente. Ho cercato parole per dire non tanto una riflessione sulle rovine, ma un modo di abitarle, scoprendone la vita clandestina. Ho tratto dai ruderi una prospettiva capovolta, come un invito alla resistenza: ho visto una possibilità nelle cose lasciate perdersi, nell’inutile. La poesia mi ha aiutato molto. Mi hanno aiutato i poeti. Alfonso Gatto e Charles Wright per esempio, ancora poco conosciuti in Italia.
Uno stralcio da Cade la terra (Giunti)
Mi sono persuasa di aver protetto Marcello, tenendolo lontano dal mio cuore pericoloso, ma in realtà ho protetto me, la mia quiete così finta. Intanto ho creduto di aver un tempo illimitato, e che prima o poi avrei rimediato, che ci saremmo rivisti domani dandoci forse altri nomi, e che dovevo lasciare tutto com’era […]
Invece non mi resta che il paese, la sua magica impostura. Qui scavo dentro le sere cercandovi il mattino nuovo. Nelle case che sono aperte, con le finestre accostate come se i vecchi abitanti dovessero tornare da un momento all’altro, entro in continuazione e le ragnatele mi si attaccano alla faccia. In questa desolazione, subito si fanno avanti i fotogrammi di una visione strana, evocabile. Vedo a un tratto tutti i parti e le morti che le hanno attraversate, tutte le età di chi vi ha abitato. Le madri con i figli in braccio, pesanti come sassi; le vecchie, strette nelle vesti del loro eterno lutto; i padri, con i corpi insidiati dal terrore, perché vivere fra le montagne non li ha preservati dalla miseria.
Cammino sulle mattonelle che si muovono e entro nelle cucine che hanno ancora le collane di peperoni appese al soffitto, cucine in cui si è appena mangiato, con i camini che mandano odore di fuliggine, anneriti dal fumo che nelle sere di venti imbrogliati tornava indietro, riempiendo le stanze. Una delle case ha il pavimento di un secondo piano sospeso nell’aria e solamente un ponteggio di edera lo sostiene come può. Più avanti c’è una casa quasi intatta, con le pareti screpolate che recano tracce di un rosa antico e vicino al camino c’è una cesta, ancora piena di legna. Le erbacce sono ovunque, negli antichi orti, su per i muri. La furia della natura si è riversata anche sulle vecchie botteghe, che sono mangiate dai rampicanti; la fucina del fabbro è murata da una falange di muschi che ne impedisce l’accesso. E guarda le cantine: sembrano sarcofagi con i pezzi di cemento staccatisi dalle pareti a far da canopi.
Nella polvere di queste rovine, in questa polvere che il tempo ha sparpagliato posso riconoscere volti oggetti capelli rimasti fra i sassi, lacci di scarpe confusi con le piccole nervature delle foglie, giunture schiantate e sedie e tavoli e abiti transitori, e una parola per volta, finché avrò vita, imbastirò la storia di questo paese.
Dalla bandella, testo di Andrea Di Consoli
Alento è un borgo abbandonato che sembra rincorrere l’oblio, e che non vede l’ora di scomparire.
Il paesaggio d’intorno frana ma, soprattutto, franano le anime dei fantasmi corporali che Estella, la protagonista di questo intenso e struggente romanzo, cerca di tenere in vita con disperato accudimento, realizzando la più difficile delle utopie: far coincidere la follia con la morale.
Voci, dialoghi, storie di un mondo chiuso dove la ricchezza e la miseria sono impastate con la stessa terra nera. Capricci, ferocie, crudeltà, memorie e colpe di un paese di “nati morti” che si tormenta nella sua più greve contraddizione: voler essere strappato alla terra pur essendone il frutto.
Cade la terra è un romanzo che acceca con la sua limpida luce gli occhi assonnati dei morti: sembra la luce del tribunale della storia, ma è soltanto il pietoso tentativo di curare le ferite di un mondo di “vinti”, anime solitarie a cui non si riesce a dire addio perché la letteratura, per Carmen Pellegrino, coincide con la loro stessa lingua nutrita di “cibi grossolani”. Seppellirli per sempre significherebbe rimanere muti.
Ma c’è orgoglio e dignità in queste voci, soprattutto femminili. Tornano in mente le migliori pagine di Mario La Cava, Corrado Alvaro e Silvio D’Arzo: prose appenniniche petrose ed evocative, come di pianto riscacciato in gola, la presa d’atto dell’impossibilità d’ogni epica.
Cade la terra è tassello romanzesco importante della grande letteratura meridionale novecentesca. Che venga pubblicato ora, in altro secolo, è solo la dimostrazione che gli orologi non sempre indicano l’ora esatta.