Parente desnudo: Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler

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Devo dire, in primo luogo: il titolo è felicissimo. Non si era mai arrivati a pensare a Adolf Hitler come a un artista mancato se non partendo dalla biografia di Ian Kershaw, ma nessuno aveva finora osato prendere a paradigma colui che è passato alla storia come simbolo indiscusso del Male assoluto per un romanzo in cui fama e grandezza vengono a sfatare i propri miti illusori nell’abbondante reticolo delle 400 fitte pagine, sempre più appassionanti e anche divertenti fino al riso cordiale, de Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler di Massimiliano Parente (Mondadori, 2014). Il titolo è perfino un po’ fuorviante nella sua efficacia, perché Hitler ha avuto bisogno degli altri per realizzarsi laddove Max Fontana ha fatto tutto da sé, perciò è anche più grande di Hitler nel suo affabularsi megalomane. Ma procediamo con ordine.

         Tutto è iniziato con l’invasione della Polonia e, successivamente, con la merda d’artista di Piero Manzoni. E, verrebbe fatto di dire, Hitler si è rifatto a Duchamp nell’ambizione sbagliata di passare alla storia come artista. Chi è più famoso di Hitler, persona mediocre dopotutto, chi non ne ha mai sentito parlare? Successo chiama successo, denaro, potere in un mondo dove tutto è mercato e quanto non è subito tradotto in merce semplicemente non esiste. Questo è il ragionamento, a prima vista ineccepibile, della madre di Max, un’opinione borghese analoga, spiega lui, a quella della madre di Nietzsche. E, aggiungerei, della sorella, maggiore responsabile della manomissione in senso nazista degli scritti del filosofo per farsi bella col suo Führer. Dalla nullità che era, fatto sta che il protagonista di questo libro porta alle estreme conseguenze l’operazione di Manzoni (anche di Alessandro, perché no?) diventando il famoso Max Fontana grazie a L’origine del mondo di Courbet su cui, per combinazione, si è masturbato in pubblico, suscitando molto clamore e il proprio arresto immediato, al Musée Orsay di Parigi, dove era andato per suicidarsi a causa del suo fallimento artistico. E non era anche Hitler, prima di andare al potere, una nullità, un imbianchino qualunque? Come ci sarebbe andato, perdipiù avendo fallito il putch di Monaco, se qualcuno, anche al di fuori della Germania, lo avesse ostacolato? E se non avesse disposto di una superiorità tale da distinguersi da un qualsiasi ciarlatano, avendo sempre su tutto un’opinione coerente con la sua visione del mondo complessiva, come gli riconosceva Hannah Arendt?  

          Hitler è qui maieutico o, meglio, è un cavallo di Troia. Si è parlato della mostruosità di questo personaggio, “urticante” è stata giustamente definita la lettura di questo libro che, come le precedenti opere di Massimiliano Parente, necessita di un quid in più di attenzione. Dietro l’anima hitleriana (la stessa, in fondo, come precedente letterario, che Dario Bellezza attribuiva maliziosamente nei suoi romanzi alla odiosamata e perduta Elsa Morante, ossia un Hitler che pregusta la soluzione finale per tutto il genere umano) non ci sono assunti schmittiani bensì, eclatante, l’«aura benjaminiana» e la critica della cultura che si va delineando fin dal primo capitolo con gli attacchi categorici – veri e propri Blitzkriege, è il caso di dire – agli errori del politicamente corretto, a cominciare dai proclami antifascisti ribaditi retoricamente in questi nostri tempi – che non sono gli anni Sessanta e Settanta – in assenza reale di fascismo.

          Max Fontana è capace di disarmante autenticità fanciullesca polimorfo-perversa, non solo perché vive con uno scimpanzé (Martina). Non si può non lasciarlo dire, seguirlo nel suo delirio sostenuto dalla geniale capacità combinatoria dell’autore. Non ci mettiamo a cercare crocianamente la non-poesia proprio perché le sue provocazioni, perlopiù (ir)ragionevoli, sono strumenti espressivi, colori, elementi funzionali alla narrazione e non extra-poietici; del resto Croce stesso, evocato a un certo punto nel testo, non voleva ripetitori acritici e il protagonista del libro ha distrutto l’estetica,  anche quella crociana e quella della filosofia classica tedesca e ha fatto benissimo. C’è un’affabulazione evidentemente romanzesca intorno a Hitler. Parente non è Saviano, per fortuna sua e nostra e della letteratura italiana, e qui c’è una questione stilistica, come è stato già detto chiamando in causa Il critico come artista di Oscar Wilde. Speriamo che questo capo d’opera sia letto e compreso all’estero, per il respiro internazionale e l’ampliarsi totalizzante delle situazioni. Ma provinciale è l’universo e i pluriversi impliciti nel caos iniziale, prima che si desse questo cosmo eternamente perituro nel quale, forse, tutto non è che un ammasso insensato di materia.

          L’intelligentissima perfidia contrastiva utilizzata da Parente è (non tanto) innocente e necessario paradosso, giocosa profluvie affabulatoria, liberazione in termini estetici e ribaltamento della realtà sempre naturalmente e imprevedibilmente ambigua. Quello di Max è il ritratto dell’artista in presa diretta col proprio sguardo retrospettivo su quanto ha fatto, tra misfatti mondiali e epocali, non poi attribuibili strettamente a lui, né a Hitler che pure ne ha combinate parecchie, nell’epoca benjaminiana della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte e della morte dialettica di Dio. Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler è un libro heideggeriano molto più di quel che sembri, nonostante i suoi sistematici Blitzkriege ateologici. Viene in mente la fortuna di Hannah Arendt (e Georges Manolescu, ispiratore delle Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull di Thomas Mann, e Bernhard e Gombrowicz, tutti distruttori e demistificatori dell’estetica al pari di Duchamp) che gode oggi d’ampio e frainteso successo. I radicalchic di sinistra – detestabili quanto Betty Beatrice (si chiama così la critica di destra) e Angelo Schopf (il moralista critico d’arte di sinistra) – vogliono farla passare per una loro rappresentante, lei che tutt’al più è stata una liberale eterodossa, ha depotenziato l’Olocausto o quantomeno Eichmann dalle sue pagine risulta di una banalità degna d’altra causa. Fontana è un seguace della Nazi Pop Art, ultima tendenza dell’arte odierna dopo il neo-Pop, il neo-Optical, il neo-Minimalismo e naturalmente il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler (il catalogo delle proprie opere citate se lo farà da sé, alla fine del volume). Siccome si parla molto di storia dell’arte contemporanea a partire da Duchamp, tra Beatrice, Schopf e il magnate giapponese Tekkamaki, sarebbe ottima cosa leggere o rileggere Prima e dopo il 2000. La ricerca artistica 1975-2005 di Renato Barilli.

          Qualsiasi cosa Max scriva su Twitter viene interpretata in decine di modi, ritwittata da migliaia di persone. «È la figata di essere artisti, l’arte è un non luogo a procedere e incute un misto di soggezione e incomprensione nel popolino: la ragione si dà ai pazzi e agli artisti, ai primi perché tanto hanno sicuramente torto, ai secondi perché non si sa mai, magari diventano famosi, o diventano Hitler». Il tweet sul cazzo evergreen sarà ritwittato, non a caso, ben 5511 volte!

          È un antiumanistico re Mida, ciò che tocca arte diventa, mentre fa soldi fa arte, di più: è in grado di trasformare chiunque in opera d’arte firmando su chiunque il ragno svastico, come da intervista a Maria Pia Mondaini nella seconda parte. Conseguentemente, il romanzo diventa appunto la storia e cronistoria redatta da Max Fontana delle opere dello stesso Max Fontana (da citare, fra le tante: Credete che il mondo fosse peggiore adesso di quanto fosse un’ora fa?; Croce in croce; H.I.T.L.E.R.; A cena con Hitler, che mi ricorda A tavola con Hitler della Arendt; E se il papa facesse finta?; Non-Hitler).

          È un impolitico inattuale, non ha cambiato nemmeno stile di vita quando è diventato ricco, a differenza di altri tiene nella giusta considerazione il denaro regalandolo donchisciottescamente senza stare a contare le cifre e senza nessuna plausibile ragione: «È più forte di me: quando sono di fronte ai miliardari viene fuori la mia parte comunista, quando sono di fronte ai poveracci la mia parte capitalista». Finché il professor Hans Schicklgruber di Zurigo, alla fine della prima parte intitolata L’origine del mondo, gli rivela che ha un meningioma, un tumore al cervello. È il momento più drammatico del romanzo, il trauma non è molto diverso da quello dei passeggeri degli aerei dirottati l’11 settembre o dell’arresto di Enzo Tortora.

          Nella seconda parte (Il più grande artista del mondo) Max è misteriosamente scomparso, tutto il mondo lo cerca dando la caccia al serial killer. Il suo account Twitter riporta solo messaggi privi di significato. Dopo un anno apprendiamo che è vivo e si trova a New York con lo pseudonimo Dexter Morgan, così dice. Incontra Anna Wintour in un’incredibile sua apparizione, il Doctor House (che, se era lui, viene ucciso da Max in preda al «killer instinct») e in modo esilarante Tom Cruise, suo associato in massonica complicità, interprete, peraltro, di Operazione Valchiria, il bel film di Bryan Singer su uno degli attentati a Hitler. Ma Cruise disbriga anche lui le proprie impegnative funzioni corporali e quasi non riconosce il nostro Max, ormai famoso al punto che si vendono a dieci dollari maschere di plastica del suo volto. Ognuno può sentirsi Max Fontana, con questa maschera anche senza esserlo e, a maggior ragione, a sua volta lo stesso Max Fontana che, pur essendolo, ne indossa una.

          La terza parte è ambientata in America: La fine del mondo. Max è in fuga precipitosa per  il continente, sempre col suo tumore al cervello e le metastasi che invadono il suo corpo producendo a loro volta nuove opere d’arte, con Martina, fino al gran finale – imprevedibile – tenero – straziante – vero – che qui sarebbe fuori luogo svelare. Questo romanzo contiene verità irriducibili sul piano antropologico. «L’universo è già la Soluzione Finale a qualsiasi cosa»: ciò è in sintonia col sano materialismo leopardiano («la natura stessa è un campo di concentramento immenso»), la cosmogonia che vi è racchiusa potrebbe coincidere con la visione del mondo di Nietzsche, compresa la genealogia della morale e l’intuizione dell’eterno ritorno dell’identico. Certo sconcerta non poco che Heidegger abbia guardato a Hitler come a un paladino dell’essere dell’Essere deposto dall’Occidente a vantaggio della tecnica moderna, della soggettività logico-quantitativa, dell’individualismo, della degenerazione della stessa democrazia in totalitarismo maggioritario. Ma quando, ben presto, Hitler si rivela inadeguato alla critica della modernità ecco che Heidegger se ne distanzia, tant’è vero che dopo la guerra la Arendt stessa lo difenderà dalle accuse di nazismo. La critica è giudizio, giudizio storico, sul rapporto tra un certo individuo e le istituzioni, anche culturali e linguistiche, e il giudizio di condanna del nazismo viene ovviamente, anche qui, pronunciato e ancora una volta lo sottoscriviamo, mentre va sottolineata la sbizzarritissima fantasia e la bravura politecnica di Parente nel concepire il plot, nonché nell’inventare i nomi dei personaggi (nel caso di Sabine Kleist, nella fattispecie, servendosi di specifici frammenti di realtà).

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