Editoriale
Come rane abbindolate dallo scorpione frigniamo il trapasso del giusto. Poche frottole. “Quaggiù”, in questo luogo-mondo, “nulla è risolto, perché nessuno si prende la briga di sapere a che punto è rispetto a se stesso”, echeggia Cioran. Bisognerebbe, per il tempo che ci resta, tentare il ricongiungimento con il luogo originario di ogni dire, e, frattanto, rinnovare l’esperienza della solitudine, quella sana, da intendere, a scanso di equivoci, come contraltare dell’isolamento. Repetita iuvant. Bisognerebbe rievocare il chiarore cristallino della poesia. “La poesia è luce. Dei paesaggi, dei movimenti, dei miraggi e degli inganni, delle favole e degli affanni, resta un insieme di luci che, alla fine, sono l’unica possibilità di amare e ricordare”. Come negarlo a Cesare Pavese? Molte cose sono mutate, profondamente, ma, certo, e per fortuna, non è cambiato il compito (illuminante) dei poeti: disegnare i lineamenti intellettivi di un’epoca, interpellando la realtà presente, e, passando per la propria coscienza, allungare lo sguardo verso compiutezza e rispondenza al vero della vita. Il poeta sa che esistono cose alle quali, una volta scoperte, bisogna essere leali fino alla morte, similmente rammenta, finché gli è dato vivere, di quell’unico modo di stare al mondo.
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