Patrizia Sardisco, “la lingua della poesia è quella che libera la parola dall’ombra lunga del significato”

S’intitola “Autism Spectrum” è l’opera “sonda” con la quale la siciliana Patrizia Sardisco ha vinto il Premio nazionale editoriale di poesia “Arcipelago itaca”. Il titolo di questa raccolta rinvia alla medicina: alla patologia psico-motoria e cognitiva che si rivela nell’infanzia, nota come “disturbo dello spettro autistico”. Leggendo ci afferra poesia «dirotta dirompente», ci conduce lungo una «spiaggia sterminata bianca e oscura», lungo un «pensiero cirriforme/ deflagrato, lungo «il tempo binario della conta». Poesia «luccicante», come «una lingua universo un’armonia/ senza più i connotati/ di gravità»; «tagliente», come «l’impossibilità di dirsi di farsi/ umano contrappeso». Come scrive nella partecipata postfazione la poetessa Anna Maria Curci, “in questo resoconto di un’esperienza estremamente dolorosa, la parola che sale alle labbra di chi legge, è ‘professione’, parola che unisce scelta, dichiarazione, attività lavorativa e passione – puntigliosa, irruente, dolorosa – per la parola”.

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?

Non ho, a dire il vero, un ricordo particolare della mia prima poesia, però so di aver scritto da sempre: pensieri, minuscole narrazioni, versicoli. Puntualmente strappati in pezzi minutissimi. L’ho fatto per anni, senza particolari rituali ma con una sorta di trepidazione bifronte, l’urgenza di scrivere, l’impazienza che presto ne sparisse ogni traccia: dopo avere osato attraversare un continente bianco, che la neve del silenzio tornasse a ricoprire una pace interrotta, l’aria lacerata, l’errore.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione? Quale (e per quali ragioni) poeta e i relativi versi che non dovremmo mai dimenticare?

Amo, e ho con lui un debito di profonda riconoscenza anche per aver acceso il mio amore per la psicologia, Luigi Pirandello: il suo teatro sopra ogni cosa, letto in lungo e in largo negli anni teneri, interrogandone il lessico e lo sguardo con l’assiduità di chi frequenta un maestro privato e finendo con l’innamorarsene. Amo Gadda, per la vertigine, per il coraggio avventuroso della lingua, per il rapporto etico dialetto-lingua che mi interpella in prima persona. Amo Sereni, cui torno sempre con lo stesso stupore, l’equilibrio de Gli strumenti umani, la complessità semantica di Stella variabile, quando “preme sui significati e li contrae nel profondo”, tanto per citare lo stesso Sereni che qui si riferiva a René Char (da lui tradotto) ma, come fa notare Fabio Pusterla, sembra quasi parlare della propria scrittura. Amo Fortini, e credo che la sua lezione sia stata particolarmente fertile nel mio rapporto con la me che scrive. Mi riferisco in particolare a quella idea di scrittura come azione sul mondo – interpretazione e azione –, al credere possibile agire sulle coscienze, al credere nella necessità di prendere posizione e praticare con coerenza e responsabilità il ruolo, i molti ruoli assunti, per modesti che siano, e periferici, nella cognizione solo apparentemente contraddittoria che “la poesia non muta nulla”: nell’incertezza, nell’inimicizia che include se stessi nel novero, scrivere, prima di essere un piacere, esercizio estetico che in se stesso ha il proprio fine, è un dovere. Il che non vuol dire, certamente, che sia fatto obbligo a tutti di scrivere ma, più semplicemente, che in tutti coloro che lo fanno dovrebbe imporsi la consapevolezza della portata di testimonianza, resistenza, proiezione in avanti, del dire poetico. Il monito di Bertolt Brecht è ineludibile: “non si dirà: i tempi erano oscuri/ma: perché i loro poeti hanno taciuto?” (cito dalla traduzione di Enrico Ganni, in Poesie politiche, Einaudi). Mi convince, insomma, la dimensione politica della parola, di ogni atto comunicativo e della poesia in particolare: l’etica precede e giustifica ogni istanza estetica. “Se ho scritto è per pensiero/perché ero in pensiero per la vita (…) per ogni creatura che indietreggia/con la schiena premuta a una ringhiera”: i versi di Antonella Anedda, tratti da Notti di pace occidentale, tracciano chiaramente un perimetro, e una direzione che espone e muove la parola poetica, la parola scritta, a partire dal pensiero. La preoccupazione per la sorte dell’altro da sé, prossimo, lontanissimo, in questo mondo indifeso, offeso, si traduce nella necessità di osare dare nomi all’orrore, all’ingiustizia, nomi ai morti, parola agli ultimi, e farlo dall’interno di un destino che ci include e dirada l’illusione di poter dire io, e di pensarsi in salvo davvero, fuori pericolo, protetti. Scriviamo dall’interno di un noi, consapevoli o no. Chi dice io, con ostinazione, e a volte con riconoscibile buona fede, è anche lui dentro a un noi che forse non scorge eppure fatalmente presuppone.

Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarti alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?

Mi viene in mente Giuliana Saladino, l’introduzione al suo Romanzo civile edito da Sellerio: “Ma come scrive una donna? A lassa e pigghia, lascia e piglia, lascia e piglia, interrotta venti volte, suona il telefono, si perde il filo, si ricomincia, suona il citofono, tutto daccapo, ora suonano alla porta, ma figurati, vieni, non facevo proprio nulla (…)” Con un sorriso rispondo che l’ora adatta allo scrivere sembrerebbe appartenere al mondo della notte, come ci dice Alda Merini, e a volte davvero è così anche per me: in realtà, tuttavia, nella mia esperienza, “il momento ideale” non gode di un vero carattere ciclico, non è fase quanto piuttosto posizione e disposizione che coincide sempre con l’aprirsi di una piccola bolla d’ossigeno e silenzio, entro cui ogni nota e ogni luce spiccano, in un nitore che ricorda certi chiari di luglio dopo un acquazzone, quando ogni cosa e ogni parola, come deterse a fondo, restano raccolte in un loro stupore di goccia, prima della caduta. Può accadere di notte o, più spesso per me, alle prime luci del giorno di festa; accade al crepuscolo, a volte, quando di colpo s’incolla a una finestra. Persino in auto, mentre il corpo risponde a stimoli condizionati e la mente, non sorvegliata, compila elenchi e sperimenta calcoli combinatori, avvicina mondi distanti e voci perdute: allora accosto, lampeggiatori accesi, e in quel pulsare cardiaco cerco di appuntare l’epifania di un mistero di suono e immagine che, mentre da un lato insiste a imporsi, dall’altra parte, nello stesso momento, guizza come mercurio da sotto i polpastrelli. Il lavoro compositivo vero e proprio però è successivo, ed è ricerca di una coincidenza mai facile di un incentro geometrico in cui coincidano senso, suono, silenzio, atmosfera, effetto, e molto altro di impalpabile, ricerca che può durare settimane.

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?

Si può pensare alla poesia come a un oggetto prodotto dall’inconscio, come lo sono un atto mancato o un lapsus, e tradotto in parole, un cristallizzarsi di materiale altrimenti fluido, imprendibile, soprattutto scottante. E tuttavia lo scarto, tra ciò che sentiamo essere una poesia e ciò che sappiamo dirne, resta ancora ampio e spiazzante, come inscritto dentro una spirale che sembra convergere ma che invece allontana a ogni corsa il suo centro. Eccentrica ogni definizione di poesia. Penso a un verso di Mario Benedetti, da Pitture nere su carta: “Voglio non essere muto, potendolo, in una voce nuova”. La novità della voce è la ricerca inquieta, inappagata sempre, di sé e del suono del proprio luogo interiore, bosco, giungla urbana, corrente sottomarina; di sé e del suono del tempo, di ogni tempo e del proprio: come respira nella canna sonora che siamo. E poi sì, come tacerlo?, in quel verso il cortocircuito tra volontà e possibilità, anzi, tra lo spazio aperto dalla possibilità e l’intenzione, pare proprio alludere alla questione della responsabilità del dire cui facevo riferimento prima.

Qual è (dal tuo punto di vista) la lingua ideale della poesia?

Ti ringrazio, a mio avviso è una delle più salienti tra le domande che, scrivendo, possiamo porre a noi stessi. Porre la questione è già, di per sé, un approdo, poggiare i piedi e iniziare a percorrere disponendosi all’esplorazione. Assordati dall’abitudine linguistica, prigionieri nelle stive di microlingue dalle quali, spesso, la luce è inattingibile, il rischio è che tanti slanci di liberazione finiscano con il ricadere dentro perimetri angusti, che le gambe anchilosate barcollino lungo piste già battute. La risposta, dal mio punto di vista, è interna al significato della parola poesia, a quel fare e a quel produrre richiamati nell’etimo: la lingua della poesia è quella capace di creare mondi liberando i significanti dalle molte schiavitù che li opprimono, tagliando le funi delle zavorre che impediscono alla parola di volare in alto. La lingua della poesia è quella che libera la parola dall’ombra lunga del significato e la trascina fuori, la espone, e la orienta alla luce da ogni lato, cercandone le facce o inventandone di nuove, sgrossando e lucidando, scorticando persino: amputando, se serve. La lingua della poesia è il territorio inesplorato, la terra promessa messa al mondo dal piede che osa il passo e attinge ovunque, in verticale e in orizzontale, persino in quella terza dimensione costituita dal temerario orizzonte dei dialetti, rotta insieme terragna e celeste dove regna un grande, aurorale silenzio da cui la parola germina, nuova per luce, nuova per musica e respiro, ma antichissima, arcaica in quel frammento di materia stellare in cui ogni genealogia è ricondotta alla più intima parentela.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a scegliere una tua poesia dal libro “Autism Spectrum” (riportala gentilmente) e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Autism Spectrum nasce dalle frizioni, dai cortocircuiti, tra intenzione e gesto, tra istanze di nominazione e scacco della parola, tra stupore e dolore, tra amore e frustrazione.
L’esperienza pedagogica con una persona la cui diagnosi clinica ricade nello spettro autistico ha generato un turbine di interrogativi la maggior parte dei quali inesprimibili in termini asettici, professionali, se non scorporando e lasciando in un cono d’ombra, inascoltato, un ulteriore spettro, quello della relazione che i cosiddetti normali intrattengono con la diversità, e un altro ancora: lo spettro, la gamma, delle emozioni, amplissimo e in continua ulteriore segmentazione, che questa relazione scopre. Per dirne, occorreva tentare di creare una lingua che traducesse sgomento e inadeguatezza; lo straniamento e il sentimento di colpa; distanza incolmabile e impulso a percorrerla controvento; una idea di trincea in cui scavo sono paura e solitudine; il pugno allo stomaco che obbliga ad arretrare e tuttavia la meraviglia; la densità più oscura, insondabile, e tuttavia l’ostinazione di una fede radicale coltivata con pudore.

 

 

 

#16
e poesia piovi dirottata
dirotta dirompente
da quel tuo proprio circolo polare
tuo arco sidereo immunitario
a formula simmetrica
d’opaco dendrite cristallino

e nevichi pensiero cirriforme
deflagrato
grato per poco
del tiepido del labbro
della lingua
che non ti sa tenere senza
liquidarti
in prosa
in altra pronunciata cosa

 

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 13.06.2021, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

 

 

 

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