Da fine 2021 dirige la collana di poesia portosepolto, per conto della casa editrice peQuod. Luca Pizzolitto (nella foto di Franco Sarti) nasce a Torino il 12 febbraio 1980, città dove attualmente vive e lavora come educatore professionale. Da quasi vent’anni si interessa ed occupa di poesia. Nel 2008 vince il Premio Arezzo Poesia; nel 2014 si classifica primo al Concorso Letterario Internazionale Città di Moncalieri (“Una disperata tenerezza”, Ladolfi). Nel 2019 vince il Premio Internazionale Città di Latina (“Il tempo fertile della solitudine”, Campanotto). Nel 2021 è finalista al Premio di Poesia Onesta e Premio Prato Poesia (“La ragione della polvere”, peQuod). I suoi ultimi libri pubblicati sono: L’allontanarsi delle cose (Ladolfi, 2016), Il silenzio necessario (Transeuropa, 2017), Il tempo fertile della solitudine (Campanotto, 2018), Tornando a casa (Puntoacapo, 2020). Con la casa editrice peQuod ha pubblicato, nella collana Rive: La ragione della polvere (2020) e Crocevia dei cammini (2022). sito: www.lucapizzolitto.it – facebook: https://www.facebook.com/pizzolittoluca
L’intervista.
Quali le peculiarità di questa collana?
Portosepolto nasce nel gennaio 2021, dalla collaborazione tra me e Marco Monina (editore di peQuod); l’intento è quello di pubblicare e rivolgersi a quei poeti (e, di conseguenza, a quella fetta di lettori) i quali cercano, nella poesia, una dimensione intima, un’attenzione per le piccole cose, uno sguardo che scavi nel significato di un gesto, di un vissuto, di una parola. Gli autori ospitati (che che ospiterò) in questa collana sono tutti poeti per cui la dimensione del viaggio (all’interno di sé, nelle proprie viscere e nella quotidianità del vivere) è una dimensione imprescindibile: che questo nostos si declini poi in una ricerca umana, spirituale, filosofica o esistenziale, a me, sinceramente, poco importa. Ciò che invece m’importa in maniera assoluta è che questa poesia non si limiti al vuoto estetico della forma, alla ridondante compiacenza verso chi legge o nei confronti dell’egodistonico io di chi scrive e necessita di salire su un piedistallo sempre più alto per essere visto meglio (purtroppo due varianti molto diffuse -ed apprezzate – nella poesia degli ultimi anni).
Perché proprio “Portosepolto”? Per intendere/ includere “esattamente” cosa, oggigiorno?
Portosepolto deriva dall’omonima poesia di Ungaretti (per me, una delle liriche più belle mai scritte). Il protagonista di queste poche righe è il poeta, che si immerge nel profondo, laddove più si scende e maggiormente è buio, più si scende e più il dolore è una bestia ferita, il vuoto riecheggia del suono spento di altro vuoto. Il poeta, in questa discesa, strappa pezzi di notte e di carne, descrive la caduta, la vertigine. Ma poi risale. Non si piega al buio ma torna alla luce, e disperde, a questo punto, il suo canto. Un canto che non sarà più, ora, vuota rimembranza del vuoto, bensì una parola pregna di significato, una poesia che non è lineare compiacimento del buio, del dolore, di ciò che non va. Tutto questo il poeta lo attraversa consegnando, a chi legge, anche solo un minimo spiraglio, un anfratto in cui custodire la luce.
Da dove nasce l’idea? Come si è ‘accesa’?
Avevo 14 anni quando lessi Ungaretti; ne rimasi folgorato. Su un piano mentale ed emotivo insieme. Una manciata di poesie, in particolare, mi lasciarono la sensazione precisa che portassero con sé, in quelle poche rarefatte parole, una forza, una verità in grado di sradicare e ricostruire. La poesia ‘il portosepolto’ era una di queste. Circa 12 anni fa, insieme a 5 cari amici, portosepolto è stato, per tre numeri, un taccuino letterario: una piccolissima (dal punto di vista proprio del formato) rivista che si occupava di poesia, narrativa, musica. Nel tempo, ho sempre coltivato il desiderio di affiancare al mio percorso di studio e scrittura poetica, quello pubblicare altri autori. Nello stesso tempo, ho anche sempre pensato fosse uno di quei sogni destinati a rimanere tali, da cui attingere forza e desiderio, ma nulla più. Due anni fa c’è stato l’incontro con peQuod e, nello specifico, con Marco Monina, l’editore, con cui è nata, da subito, una sincera amicizia umana ed intellettuale. Dopo circa un anno, sentendomi davvero a mio agio con lui ed all’interno della casa editrice, ho pensato “O ci provo ora, o chissà quando mi si presenterà di nuovo un’occasione così”. Ricordo ancora alla perfezione: era venerdì, mi sono sentito telefonicamente con Marco (come avveniva ormai da quasi un anno, una volta ogni quindici giorni); gli ho detto “Senti, non ci giro intorno: mi piacerebbe curare una collana di poesia per peQuod. Ho tutto abbastanza chiaro nella testa, se vuoi te ne parlo”. Dopo un attimo di silenzio, Marco ha risposto: “Mandami una mail entro martedì, una mail in cui descrivi nel dettaglio il progetto, e ne riparliamo. Per me, si può fare”.
In un momento storico ‘danneggiato’ dalla quasi totale carenza di ascolto, a cosa serve la poesia?
Domanda difficile. A cosa serve la poesia -che cos’è la poesia stessa?- Mi trovo sempre in difficoltà tentare di rispondere a queste domande. Per me, la poesia è un qualcosa di intimo, di necessario, di imprescindibile nelle mie giornate (e notti spesso insonni). Di fronte a questa domanda ricorro spesso all’aiuto di poeti che sono riusciti ad esprimere, in maniera efficace e con parole che io fatico a trovare, cosa sia, a cosa serva la poesia. Spesso mi affido al pensiero di due poeti francesi che amo molto. Cito, parola per parola, Philippe Jaccottet; e vado a memoria su una riflessione di Yves Bonnefoy. Jaccottet scrive: “(..) La poesia dunque è quel canto che non si può afferrare, quello spazio in cui non si può restare, quella chiave che tocca sempre riperdere.” Bonnefoy, in una certa misura, completa questa riflessione, aggiungendo che la parola poetica è un qualcosa che sempre si avvicina ma mai raggiunge; è però, in questa tensione, in questo desiderio (in parte detto ed in parte impossibile da esprimere) la parola che “salva il mondo dall’abbandono, che trasforma l’esilio in speranza, che ritesse il filo spezzato della vita.” Ecco. Di fronte a questo, sono convinto non ci sia davvero nulla da aggiungere.
Per concludere, puoi parlarci, a partire dalle pubblicazioni inaugurali, dei progetti futuri?
Alla base dell’idea di una collana di poesia, oggi, nel caos contemporaneo in cui una marea di persone che io conosco, scrive, e -più o meno- una ogni tre pubblica, alla base di portosepolto c’è l’idea di fondo di avere a che fare con la lentezza, la cura, l’attenzione ed il lavoro sulla parola (sull’uso e sul significato della stessa). Quando ho pensato a questa collana, la prima associazione che ho fatto è stata con una bottega artigianale: un luogo e un tempo in cui non solo si pubblica una raccolta e tanti saluti, ma si declina una dimensione di tempo (un prima, un durante e un dopo), si lavora insieme sui testi, poche persone per volta, evitando gli affollamenti; ci si ferma, anche a lungo, sulle singole poesie, si creano relazioni (umane e non solo dettate dalla necessità di pubblicare un qualcosa). Il prossimo anno, andrà come questo, a livello progettuale: la collana ospiterà cinque massimo sei raccolte poetiche (non di più perché, facendo, nella vita, un altro lavoro, non avrei il tempo materiale di dedicarmi a testi ed autori, e quindi verrebbe meno quanto detto poche righe sopra). Ogni anno, accanto a poeti già conosciuti, ci sarà un esordio. Mi piace molto l’idea di dare spazio a nuove voci, accanto ad altre già, in parte, conosciute. Una piccola curiosità: questo primo anno si concluderà, a novembre, con la pubblicazione di un’opera prima; l’anno a venire si aprirà, a febbraio, con un’altra opera prima. E tutti i poeti che faranno parte di portosepolto, nel 2023, sono già entrati nella piccola bottega poetica. E si è già iniziato a lavorare insieme sulle singole raccolte.