Poesia e fulgore, rubrica a cura di Franca Alaimo
Una stanza e un’assenza.
Il pensiero va subito al romanzo La stanza di Jacob di Virginia Woolf – ispirato dalla morte prematura del fratello Thoby – non solo per il parallelismo doloroso della vicenda (per entrambe autobiografica, sebbene la Woolf scelga di raccontarla in terza persona e cambi il nome del protagonista), ma per la presenza dello stesso fulcro spaziale: una stanza.
Quella descritta dall’autrice Del Moro coincide con la scena dell’evento luttuoso: in essa, infatti, il figlio ha reciso volontariamente il filo di una breve vita trascorsa tra tante passioni, come testimoniano gli oggetti che vi sono rimasti, non più toccati dal quel suo ultimo giorno: testi teatrali, politici e filosofici, cd musicali e film. Ormai vuota («rimane il suo nome/ vicino alla porta», pag. 33), i muri bianchi e freddi, la stanza racconta senza sosta la sparizione. Come dire che, una volta cessata la mobilità del corpo vivo, restano solo delle forme a testimoniare mutamente che il figlio è stato, proprio come nel romanzo di Virginia Woolf è un paio di scarpe che la madre solleva chiedendosi: “Sono di Jacob?” ad attestare che, sì, è esistito.
Nel terzo dei dodici sogni presenti nel testo, in cui l’Es, che li inventa e li dirige, non devia mai dalla tragedia, a ribadire che la ferita è rimasta incisa come un marchio di fuoco fin nel più invarcabile profondo, l’autrice immagina di parlare con il figlio e pensa per un attimo che non è morto, ma, tornando nella stanza, vede solo «il piumone/ arrotolato sul letto».
Talvolta la gatta di casa salta sul letto di Lorenzo (indicato nel titolo dalla L maiuscola) e vi si acciambella a vegliare la sua «anima che noi non vediamo», aprendo una dimensione metafisica che rimane, comunque, soltanto accennata.
Da questa stanza s’irraggia il pallore dei vivi, così come lo sbiadimento di un’esistenza (quella materna) vissuta ormai sulla “soglia”, sul “confine”. Potremmo citare almeno quattro testi in cui ricorrono questi termini: «Gli anni scorrono nell’attimo/ del mio passo sospeso» (pag. 37); «Sto nell’invisibile/ linea di confine» (pag. 19); «ora abito la soglia/ imparo la lingua/ dei vivi e dei morti» (pag. 48); «La soglia è nella casa/ invisibile, moltiplicata» (pag. 72). Si tratta di uno stato psichico d’attesa che si colloca nel mezzo di due spinte estreme: quella verso il suicido, immaginato, da sveglia, come una caduta dall’alto o, in sogno, come una replica dell’impiccagione, e quella della conservazione o del ‘tenere-trattenere’ che sono i verbi dell’ancoraggio alla vita, sia che tale amorevole argine venga interposto dalle zampine della gatta ben stese sul suo corpo, sia che venga quotidianamente offerto dall’amore di un compagno tenero e sensibile che impedisce con piccoli gesti il traboccamento del dolore: «Lascio/ la mia mano nella sua/ le dita stese./ Il vuoto è sempre/ sotto di me/ e lui mi tiene».
La presenza di questo compagno, a cui Francesca Del Moro (nella foto di Dino Ignani) dedica moltissimi testi della silloge, costituisce l’elemento intermediario fra l’angoscia del mondo interiore e la proiezione nella quotidianità di quello esterno, in cui la vita sembra apparentemente scorrere sugli stessi binari di “prima”: il lavoro, certe abitudini, i discorsi, e tutto ciò che ci relaziona con gli altri, e però con quello stupore feroce che nasce dalla consapevolezza del forzoso adeguamento e della sostanziale estraneità reciproca.
Sono tre gli strumenti che permettono all’autrice di narrarsi senza infingimenti: la terapia farmacologica e quella di gruppo: «Siamo esseri spezzati/ -non abbiamo più l’anima/ come qualcuno dice-/ tenuti insieme alla meglio/ da rimedi chimici» e «Il gruppo è vita./ Due volte al mese/ sbendiamo la ferita», ma ancora più risolutivo appare il compito della scrittura che la stessa autrice definisce «una via di fuga» (pag. 57): «Spezzetto il male/ nella scrittura (…) Mi verso/ nelle parole e nelle persone./ Mi svuoterò di me/ completamente» (pag.105).
Bisogna precisare, prima di andare avanti nel discorso, che qui non ci si riferisce a quella pratica della scrittura raccomandata da molti psicoterapeuti come liberatoria dal dolore attraverso la sua oggettivazione in un sentire razionalizzato, ma di qualcos’altro, che si pone rispetto ad essa a una distanza immisurabile, poiché gli artisti e i poeti non sono allievi bisognosi di apprendere tecniche di discesa nel proprio Es, ma maestri che attingono direttamente alla sorgiva, come scrive Sigmund Freud in Il poeta e la fantasia, e «sanno in genere una quantità di cose tra cielo e terra che il nostro sapere accademico nemmeno sospetta».
Le parole di Francesca, levigate come ciottoli di fiume, nude, sgusciate come sono da ogni involucro inessenziale, veicolano la verità di un sentire che suona tanto più amplificato quanto più immediato, laddove la “semplicità” è soltanto il punto di arrivo di una complessa elaborazione, che, assumendo dati dalla realtà, li piega alle proprie ragioni estetiche, traendo simmetria dall’asimmetrico attraverso figure retoriche quali l’iterazione, l’allitterazione, le rime (costanti anche se liberamente sparse nei versi); e che dà continuità di significato alle immagini conservate per segmenti e frammenti nella memoria grazie alla stessa visualizzazione grafica del delicatissimo equilibrio fra il vuoto dei margini e il pieno dei significanti, fra silenzio e suono.
Gesti, luoghi e attori dell’evento (compreso l’io dell’autrice) si ricollocano, per così dire, in un ‘disastro musicale’, alla ricerca di una grazia purificatrice, che consenta qualche apertura alla quiete come cantano questi versi: «La sera/ ancora si veste/ del suo sorriso/ dei suoi occhi di miele» (pag.133) e, ancora: «Lui è ripassato di qui/ a leggere Sofocle/ a mangiare le albicocche» (pag. 131). In altre parole, come tutti i poeti, l’autrice mira alla bellezza, quella che può e sa perfino scaturire dal dolore, perché la bellezza «rallenta la fame indagatoria, placa la febbre, la frenesia di scoprire il perché. La bellezza arresta il mondo dice Tommaso D’Aquino nella Summa Theologiae. La bellezza è in se stessa una cura per il malessere della psiche» (da: Il codice dell’anima di James Hillman, Gli Adelphi, pag. 59)
Giustamente nella post-fazione Nerio Vespertin scrive che rispetto alle poesie di Ex madre, in quest’ultima silloge anche in quelle «incentrate sul tema del dolore si riscontra una nuova prospettiva, filtrata attraverso un tempo e uno spazio diversi, mediata con oggetti e simboli pieni di dolcezza […] Si ha l’impressione […] che l’autrice abbia trovato il coraggio di spiegare l’orrore della morte senza cancellarla, né tantomeno sublimarla in termini religiosi o mistici».
E ci si avvede, infine, che è l’Eros (l’amore per il figlio scomparso, quello per il compagno) il vero centro del poetare di Francesca Del Moro. Esso viene raffigurato secondo la topica oscillazione tra le due pulsioni di vita e di morte (ben rappresentato nel decimo sogno, pag.122) che cessano la loro guerra solo nell’arte, se è vero che quest’ultima le consegna entrambe ad un’eternizzazione che le include e addirittura inverte, poiché, come sostiene Freud, la scrittura è «la voce dell’assente» e non ha tempo. Al termine della lettura prende, dunque, luce la citazione in esergo da Francesca Serragnoli: «e lui avrà vent’anni/ per l’eternità/ quell’euforia disperata/ ti scompiglierà i capelli/ ma allora avrai tu vent’anni/ la pioggia dei giorni/ sarai lapidata fra fiori e sassi».