Due musicisti cantautori (e incantatori)
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MICHELE GAZICH
«Buonasera amici»: questo il disarmante saluto di Michele Gazich, occhi intensi e brizzolata barba a cascata, avvolto da un completo fatto di tinte scure sotto un cappello nero un po’ sformato, armato di violino e archetto. L’ha introdotto l’organizzatore del Festival, Marco Fazzini, il quale con tristezza comunica ai presenti la morte del grande poeta russo Evgeny Evtushenko, figura emblematica dell’epoca del disgelo in Unione Sovietica, venuto a mancare nella notte. Scomparsa che anche Gazich non mancherà di ricordare: «Molti poeti muoiono, e molti di loro purtroppo sono morti nel mezzo della vita e della produttività. Sono felice di essere qui, a Vicenza dove si dà voce ai poeti che non vengono chiusi in gabbia come Ezra Pound o uccisi come Pier Paolo Pasolini».
Musicista, polistrumentista, produttore artistico, autore, compositore anche teatrale e soprattutto – come ama definirsi – scrittore di canzoni (molti suoi racconti in forma-canzone hanno avuto la fortuna di potersi giovare delle memorie della bisnonna, narratrice al contempo concretissima e visionaria). Il suo è un percorso artistico articolato e vastissimo, costellato da prestigiose collaborazioni con artisti internazionali come Eric Andersen, Mary Gauthier, Michelle Shooked, Mark Olson, e una fortunata produzione come solista, prima con il progetto “La Nave dei Folli”, autentica rivelazione del 2009, disco che nasce da una complessa ricerca tra influenze letterarie, musicali e suggestioni cinematografiche e successivamente a suo nome con “L’imperdonabile”, il box set “Verso Damasco”, in italiano e inglese, con eccellente traduzione di Mark Olson ed Eric Andersen e il più recente “Una Storia di Mare e di Sangue”. Il talento multiforme di Gazich tocca l’acme ne “La Via del Sale”, album di grande spessore nel quale risalta in modo ancora più marcato la sua tensione verso la ricerca di verità e spiritualità, opera senz’altro protagonista alla prossima edizione del Premio Luigi Tenco, già vinto dal virtuoso violinista bresciano.
Adagia rapidamente la pittoresca barba (anch’essa un’opera d’arte!) sul violino e inizia cantando “Dio sopravvive nei dettagli/ nelle crepe dei centri commerciali/ Dio sopravvive nei dettagli / il coltello con la lama che non taglia/ Al buio la musica è più forte”, versi tratti da “Guerra civile”. Sa vibrare in modo sublime le corde del violino il nostro polistrumentista che sa usare anche la viola, il piano, dando vita a eleganze armoniose, allegrie e drammi, alti e bassi che a volte diventano regali. Con Gazich e poi con Andersen divide la scena il chitarrista Marco Lamberti che suonerà per tutta la durata dello spettacolo. Come scrive Yehudi Menuhin, “il violino è lo strumento della massima speculazione intellettuale (basti pensare ai Quartetti di Beethoven), ma è anche lo strumento dello zingaro, del gitano e dell’ebreo”, e Gazich è “l’incarnazione contemporanea dell’ebreo errante”. Dopo i versi tratti da “Fuoco nero su fuoco bianco” (“Fuoco nero su fuoco bianco / Se la notte si scioglie in pianto / Fuoco bianco su fuoco nero / Al mattino sarai sincero”) stupefacente assolo di violino, l’omaggio a Pier Paolo Pasolini “L’Angelo Ucciso”. Avvinta dal felice dialogo di parole e suoni, volgo lo sguardo verso le uscite laterali della sala e mi sembra che anche le due coppie di cariatidi sentano realmente sulle braccia, il peso del destino, della vita, della morte, di quella tragica morte avvenuta ils2 novembre 1975, in uno squallido sterrato non lontano dal mare, adiacente a una baraccopoli estiva dove il proletariato romano trascorre le sue povere vacanze. Mi rigiro a guardare la sala gremita con persone in piedi che partecipano con viva emozione dilungandosi in meritati applausi.
Nel cantare “Figlio, dov’è la tua ombra?/ Madre, io l’ho venduta per tre monete”, tratto da “Storia dell’uomo che vendette la sua ombra”, il Maestro utilizza un insolito strumento musicale a percussione costituito da una sorta di piccolo piatto e bastoncino, la campana tibetana.
«Da quasi vent’anni faccio concerti assieme ad Eric Andersen – dice – ricordate, amici, che per chi non ha una casa l’abbraccio è la sua casa, per un musicista la casa è il suo strumento ». Gazich ci parla di vita, di morte, di diaspora (“Nel 1948 la mia famiglia si spostò da Zara che, in seguito al trattato di pace del 1947, entrava a far parte della nascente Jugoslavia del Maresciallo Tito verso Venezia. Per secoli Zara era appartenuta alla Repubblica di Venezia… Il cosiddetto “esodo” dei profughi istriano-dalmati è stato sempre e solo strumentalizzato ideologicamente dalla destra e dalla sinistra italiane e non solo italiane; mai veramente studiato, mai capito. Non è stata una storia esemplare, non c’è stato un Omero a narrarla, l’esodo non ha avuto il suo Mosè, il popolo non era certo “eletto”, semmai rifiutato, scartato. Ciò che io so, e su questo vorrei farvi riflettere, amici, è che c’è stato e c’è dolore, il dolore di chi resta per sempre apolide, senza una patria o una Terra Promessa), di distruzione e resurrezione (“Nel maggio 2011 avevo rischiato di perdere la vita o l’udito per cui da allora vivo di una sopravvivenza incerta, in cui ogni istante è caricato al massimo di significato. Il mioalbum, – L’Imperdonabile -, si è coagulato in pochi mesi mentre il mio sangue riprendeva a scorrere ed è stato registrato nell’agosto 2011, con l’urgenza di stendere una sorta di testamento spirituale, poetico e musicale, augurandomi tuttavia di avere lunga vita anche in questo mondo… Ho passato l’ultima estate in luoghi silenziosissimi, montani e lacustri, dove potevo gustare con il mio udito momentaneamente e incertamente ritrovato ogni minimo rumore come se lo sentissi per la prima volta: il sussurro del vento, lo scorrere di una sorgente, il canto frenetico delle cicale, i richiami degli uccelli, il trapestìo dello scoiattolo che sale sulla pianta, la matita sul foglio e il suono del mio violino. In questi luoghi, mentre celebravo senza testimoni una resurrezione incerta, la mia scrittura si è distesa su quaderni e pentagrammi con una progressione fatale, dolcemente inesorabile. Mi sono poi chiuso in uno studio di registrazione nell’immobile deserto agostano di Brescia, la mia città natale, e, solo con il tecnico del suono, ho registrato dieci canzoni: ho sovrainciso pianoforte, violini, viole e la mia voce. Sì: anche la mia voce. Non avevo mai amato la mia voce e non l’avevo mai voluta utilizzare, se non occasionalmente, in altri progetti discografici… la malattia mi ha tolto la voce di prima e me ne ha consegnata un’altra con la quale ho potuto cantare e recitare le mie canzoni: un brandello di voce che sventola sul mistero della mia vita incertamente ritrovata con forza paradossale e imperdonabile”, dall’intervista a cura di Paolo Costola). A questo punto l’autore recita “Shekinah”, termine che indica la presenza di Dio nel mondo, camminando nella corsia centrale che divide i posti a sedere. Ritorna poi su Pound, il poeta mistico dell’amore che a Pisa, in gabbia, maltrattato e umiliato, aveva la forza di scrivere: “What thou lovest well shall be not reft from thee -Quello che sai amare non ti sarà strappato”. Come dice Daniele Benvenuti: «Gazich sceglie sempre con acume la strada della “recitazione cortese” e del “parlato suggestivo”… chiede (e ottiene) sempre l’attenzione di chi ascolta: servono rispetto e concentrazione, curiosità ed elasticità, spirito di ricerca e animo gentile».
L’ANGELO UCCISO
(In memoria di Pier Paolo Pasolini)
di Michele Gazich
Tu scrivevi mentre l’Italia moriva
Tu pregavi il Cristo dei contadini
E la terra era bianca, era cotta, bruciata dal sole
Il tuo sangue, il sudario, la riva del mare
Poeta morto ti sento
Urlare dentro il silenzio
Il silenzio di chi ti ha ucciso
Il silenzio dei senza viso
Il silenzio dei senza Dio
Che pregano in banca
Che pregano in chiesa.
La tua voce da vivo era dolce e sottile
Il belato d’agnello di chi non resiste agli agnelli
C’è chi prova a infamarti, prova a dimenticare
La tua voce da morto è un gridoche non puoi fermare
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VENEZIA 1948
(Words and music by Michele Gazich)
There wasn’t a hero Non c’è stato un eroe
there wasn’t a Homer non c’è stato un Omero
it wasn’t an exemplary tale non è stata una storia esemplare
Rag Odyssey Odissea di stracci
exodus without Moses esodo senza Mosè
But I know it: there was sorrow Ma io so: c’è stato dolore
A new ghetto in Venezia Nuovo ghetto a Venezia
for new Jews without a Promised Land. per nuovi ebrei senza Terra Promessa.
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ERIC ANDERSEN
Marco Fazzini in modo sintetico ma efficace presenta Eric Andersen, “forse il primo cantautore moderno degli Stati Uniti”, nato a Pittsburgh ma cresciuto nella cittadina universitaria di Cambridge (Boston), sottolineando subito la difficoltà di reperire i dischi del grande cantautore americano. «Molte delle sue canzoni nascono da poesie, si tratta di poesie rivisitate e poesie musicali, parecchie delle quali cantate da Bob Dylan». Non vi è dubbio che Andersen diede un rilevante contributo al Greenwich Village newyorkese negli anni ’60, che fece grandi appunto Bob Dylan e Janis Joplin.
Preceduto da uno scroscio di applausi, vestito di scuro, con borsalino sul capo e orecchino sul lobo sinistro fa il suo ingresso il grande Eric Andersen. Fresco dei suoi settantaquattro anni magnificamente portati, si esprime nel suo idioma per cui ammetto di non aver capito tutto (la traduzione in italiano dei testi è comunque visibile nella lavagna luminosa), ma sono il carisma e la simpatia del personaggio, che rapiscono e seducono… Esprime l’apprezzamento per la bellezza dell’ambiente che lo ospita, alzando lo sguardo verso personaggi storici e mitologigi racchiusi nei clipei a decorazione della sommità perimetrale della stanza. Dopo aver anche lui ricordato l’improvvisa scomparsa di Evgeny Evtushenko, ci racconta del suo sodalizio artistico con Gazich, dei suoi tour in compagnia della moglie Inge in Giappone (al prestigioso Billboard Live Tokyo assieme a Gazich) e in Italia dove non manca mai di fare visita al suo Folk Club, della pizza… Inizia con “I shall go unbounded” suonando con maestria la chitarra e l’armonica. Segue “Dusty boxcar wall”. Andersen è accompagnato dal prezioso violino di Gazich rientrato presto in scena e dalla valente chitarra di Marco Lamberti: ne deriva un caleidoscopio di atmosfere, fondamentali per elevare la qualità sonora delle composizioni del songwriter. Seguono i versi di “Woman she was gentle” (testo presente nell’antologia di Poetry Vicenza nella versione inglese e nella traduzione italiana a cura di Marco Fazzini) e di “So we’ll go no more a-roving” (So, we’ll go no more a roving / So late into the night,/ Though the heart be still as loving,/ And the moon be still as bright./ For the sword outwears its sheath,/ And the soul wears out the breast,/ And the heart must pause to breathe, /And love itself have rest. /Though the night was made for loving, /And the day returns too soon, /Yet we’ll go no more a roving /By the light of the moon), versi di Lord Byron sulla cui poesia sta proprio in questo periodo lavorando Andersen e anche Gazich. Cantando “Wind and sand” il cantautore americano si sposta al piano che suona in modo magistrale. (“All alone a father sits/ thinking of his son/Far away a mother sleeps/ her baby yet unborn/Rain and wood and fire and stone/magic all across the land/ Seasons come and times will go/ right through your hand,/ like wind and sand/ In awhile a child will growa bird will learn to fly/ Pretty soon a child will know/ what it is to make a life/ Long before the river goes/ far from where it was/ Long before it meets the sea/ a child will know of love”).
Michele Gazich col violino, Eric Andersen al piano e Marco Lamberti alla chitarra: un trio strepitoso. E il pubblico risponde con entusiasmo e vivo coinvolgimento. Si arriva all’album chiave della carriera di Andersen, “Blue river”, un concept di canzoni d’amore che rimangono pietre miliari di un folk di avanguardia, come dice Fazzini che lo ha tradotto in italiano e inserito nell’antologia. Seguono “Sheila”, “Mingle with the universe” nella cui realizzazione il sodalizio con Gazich si è rivelato particolarmente ispirato e infine “Thirsty boots” (“Sei stato a lungo sulla strada aperta /…I tuoi vestiti sono sporchi e macchiati / Ma le parole sporche e le cellule fangose / Sarà presto nascosto per la vergogna / Quindi, unica tappa per riposare se stessi e andrai di nuovo”). Le 20 sono passate ma nessuno se n’è accorto: il magico violino di Gazich con la sua originale vocalità e le vibranti note del leggendario folksinger americano Eric Andersen hanno fermato il tempo…
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DUSTY BOXCAR WALL
di Eric Andersen
Chorus:
I’m going away my baby,
I’m gonna leave you pretty gal
For a train passed by while you lay sleeping.
I’ll write you a letter on a dusty boxcar wall
I once had a love in old Kentucky
I once had a love in sunny Tennessee
But a New York gal brought me pain and sadness
Now I’m here as lonely as I can be
Chorus:
City women bring you grief and sorrow
Country girls are as sweet as they can be
City women are as cold as they are shallow
But a country girl’s love is as deep as the deep blue sea
Chorus:
Oh when I die and go to heaven
That’ll be tha last train ride I’ll ever see
They’ll put a silver spike upon my gravestone
And my casket beneath a weeping willow tree.
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Coro:
Vado via amore mio,
ho intenzione di lasciarti bella mia,
perché è passato un treno mentre tu dormivi,
ti scriverò una lettera dalla fiancata di un polveroso carro merci.
Una volta ho avuto un amore nella vecchia Kentucky,
una volta ho avuto un amore nella soleggiata Tennessee,
ma una ragazza di New York mi ha portato dolore e tristezza.
Ora sono qui solo come posso esserlo…
Coro:
Le donne della città ti causano tristezza e dolore,
le ragazze del paese sono dolci come possono essere
le donne della città sono fredde e superficiali,
ma l’amore di una ragazza di campagna è profondo come il profondo mare blu.
Coro:
Quando morirò andrò in paradiso
che sarà l’ ultimo treno che mai potrò vedere.
Metteranno un picco d’argento sulla mia lapide
e la mia bara sotto un salice piangente.