Questo ottimo libro sulla natura del bastardo è illuminante per molte ragioni. Intanto, è un libro controcorrente, che dà segno di un tragitto mentale che va in tutt’altra direzione rispetto ai “chimismi lirici” di tanti cinesi della poesia, sempre pronti a darci dei fac-simili del sentimento ricalcati sui modelli altrui. Si copia, in poesia, si sforbicia e ri-assembla: lasciando stare i giovanotti (e le fanciulle in fiore) ancora alla ricerca della propria intonazione, perfino alcuni dei cosiddetti soliti noti scopiazzano, sia detto chiaro e tondo, magari dai se stessi che furono quando ancora, può darsi, avevano qualcosa da dire. Ma Rondoni no, non copia, da nessuno, e meno che mai da sé (come farebbe, del resto, a ripetere il calco strutturale, p.es., di una poesia di sette versi, dei quali solo tre brevi o brevissimi, con nove parole in tutto, sei delle quali fra parentesi, assemblate in modo da costituire due rime “di fatto” e cinque al mezzo come questa: «Mio destino, mio dolce mastino,// mio/ destino, mio dolce/ (mormora con me, non mi lasciare/ ora) mastino, mio destino// mio dolce mastino, mio/ destino, mio dolce mastino»). Parla perché sente, Rondoni, e sente molto fortemente. Tanto che grazie a una raccolta piena di respiro, oltre che di vertiginose accensioni come questa, sono tornato a pensare senza sordine intellettuali(stiche) all’intensità dell’emozione come all’a-priori necessario del dire poetico. L’altro giorno, in rete, ho letto un’intervista a Laura Liberale, nella quale con sobria ma rivelante semplicità si asserisce che la parola poetica è una risposta, il frutto di un ascolto. Ecco. La poesia di Rondoni ha questa qualità importante, e rara, ed essenziale, esposta in superficie: nasce come una parola che risponde. Proviene, o forse, meglio: scaturisce – vista l’energia che manifesta – da un ascolto, e da un sussulto interiore. È il frutto, sempre, a quanto vedo, di una possessione amorosa, di un inarrestabile, drammatico “passo a due”. Ho il sospetto che il canto così caratteristicamente sincopato e multiforme di Rondoni risponda in primo luogo, appunto, alla grammatica pulsionale di una mente che lavora (che abbia sempre lavorato) come una pazza per “intuarsi” («Tu dici: intuarsi è segno/ dell’impossibile// e io mormoro con occhi da killer innamorato:/ immiati, non restare lì nel/ dove non sei qui// perché, vedi, è impossibile tutto/…») e, dunque, insomma, per condividere per amore e come amore, i movimenti del furibondo lavorio subcosciente che la presuppone («bastami, / non bastarmi amore/ imbastardisci me/ di te»). Ci dev’essere passione d’anima, in poesia. Nella poesia, quantomeno, che non si scrive soltanto per poeti. E Rondoni, quella passione sa restituirla nei suoi versi in modo così vero – e così potente. Per me, fossi chiamato a definirlo Natura del bastardo alla mano (o, prima, anche Bar del tempo alla mano), lo definirei un sismografo febbrile dell’esistenza. Della sua, va da sé, e di quella di molti altri fra di noi che più che “bastardi” a me viene da dire, smorzando un po’ il tono, “esseri anfibi”: perché sono (siamo) fatti nello stesso tempo di terra e di cielo, di piedi che li (ci) portano a calpestare tutti i santi giorni la terra che ci ospita, e di ali o antenne che li (ci) attraggono inesorabilmente verso un altrove che ci chiama ma è già qui, messo alla prova, in noi esseri umani, della difficile evidenza di senso della cosiddetta realtà; e perché questo lo sanno (lo sappiamo), e lo sentono (lo sentiamo), folgorati come sono (siamo) dalla bellezza e dal dolore che vediamo fiorire e brulicare ovunque, in noi e fuori di noi, quaggiù nel mondo creato (che belli, nel miglior Rondoni, certi versi dove visione e parola dialogano silenziosamente, in un’assorta atmosfera d’attesa!: «cerbiatti color cenere mi fissano dai campi/ il verde nella foschia si prepara a splendere -// che occhi inquieti contemplare/ per dire grazie serrando la giubba nel vento// la musica ancora sospesa del mondo»).
Ho parlato poco fa di una coscienza che lavora “come una pazza”. Non l’ho fatto a caso, ma forte della memoria dei “pazzi in Dio”, questi bislacchi asceti giramondo di tradizione post-paolina, questi Stolti vaganti in Cristo che proprio tramite la propria stoltezza (qualcosa, mi sembra, di piuttosto affine alla rondoniana “bastardaggine”) affermano la fatuità di ogni sogno razionale della vita, e scelgono, lungo la loro vagabondante sequela Christi, di stare dalla parte di ciò che è ignobile e disprezzato («Inginocchiato/ domenica mattina presto/ nella luce bianca di stazione Termini/ due sacchi di plastica azzurri, i riflessi/ del mattino antichi sul marmo/ immobili fulmini, lui/ tremava in una posizione sospesa./ …»). Se non si fa l’errore di leggere in senso sociologico questa “scelta”, allora l’immagine di quei pazzi bastardi, di quei mistici ubriachi d’amore («Meglio bere molto quando si beve,/ fino all’apparizione dei mandorli// …/ sai, i pazzi cantano sui ponti di Isfahan ogni sera/ …») che non hanno bisogno di togliersi dai piedi le spine del mondo per testimoniarne la natura spirituale, può essere un’immagine adatta per disegnare l’ambito metafisico nel quale si agita la musa vibrante e inappagabile di Rondoni. Che a me pare votata come poche altre in Italia a cantare ad alto livello stilistico il “controsenso” che spiazza il buon senso e spinge, nel suo al di là, a confrontarsi vis à vis con l’amorosa ferocia di ciò che accade.