Dove la speranza non arriva è inferno, l’impero glaciale della disperazione: «Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate». Questo il confine tra vita e morte, il barlume dato al Vivente, il crinale che lo separa da una sclerosi irreversibile. Ne La strada di McCarthy la parabola del Padre e del Figlio punta proprio alla consegna di questa scintilla; custodire e tramandare il fuoco significa preservare dall’estinzione la generatività della speranza, anche quando i segni dei tempi indicano orizzonti apocalittici, e purtroppo non nel senso filologico di “rivelazione”. A ogni tempo e ad ogni latitudine allora vale sempre la bussola di Italo Calvino: «Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Se vogliamo trovare, in quest’epoca dolorosamente affamata di “senso”, un ancoraggio alla parola poetica è qui che dobbiamo guardare. La poesia come miccia della speranza.
La creatura che riconosce questa “fiamma” sa che essa non si estingue con la propria morte corporale, anche piagato e piegato dalla sofferenza, con un filo di voce riesce a intonare: «Altissimu, onnipotente, bon Signore». La creatura che schiude le labbra per benedire il Creatore: chiave della speranza nonché della beatitudine. Qualche anno prima, nell’intimo colloquio con il Crocifisso che ne segna la conversione, il santo d’Assisi aveva trovato la strada della semplicità (che, contrariamente a quanto si crede, non è mai facile) in una triangolazione equilatera delle virtù teologali:
Dammi una fede certa
Speranza certa
E carità perfetta
Vero è che l’Apostolo assegna una priorità gerarchica alla Carità/Amore (1 Cor 13, 13), ma riusciamo davvero a immaginare un Amore privato della fede, che è sostanza delle cose che ancora non sono (Eb 11, 1), e quindi della benzina umana della speranza? L’homo-viator di cui Dante si fa emblema porta a compimento il cammino nell’oltretomba perché la fede lo sostiene e soprattutto conserva la speranza anche in mezzo al pianto e allo stridore di denti, anzi proprio a dispetto di questi. L’amore degli adulteri Francesca e Paolo – e qui si tratta del limite esperibile dell’eros umano che è cosa ben diversa dall’agape dove è Dio che ama noi (1 Gv, 4, 10) – mette a dura prova il poeta, è vero, ma «la bocca mi baciò tutto tremante» è rievocazione sublime di un passato nell’eterno presente del contrappasso, è cioè una coazione della memoria che non è protesa in avanti, non trova sbocco nell’avvenire. Togliamo la speranza all’amore e resterà sempre una scissione, una dualità intossicata.
La fede nel cammino è il segno della speranza, lo vediamo nel movimento ascensionale del Purgatorio. Tuttavia, accecati dalla ineffabilità della luce paradisiaca, ci troviamo sbalzati davanti alle disjecta membra dell’innamorato del Canzoniere. Più tardi Roland Barthes confermerà che sì, la natura del discorso amoroso è proprio frammentaria e noi ascoltiamo «in rime sparse il suono» di qualcosa che si è rotto, una stereofonia di cocci che disperde la speme di giungere al (possedere il?) soggetto desiderato. L’equazione è ancora quella: frantumazione dell’amore (eros o agape che sia) uguale disintegrazione di ogni promessa, e quindi frana dello sperare. Solo la morte, punto finale del discorso, garantisce un approdo a questo desiderio, e pero diventa necessario non confonderla con la francescana “sorella morte” che rimane invece umilissimamente ancorata al kairos del del ricongiungimento tra Altissimu e creatura.
Questa la via tracciata dal primo testo degnamente poetico in volgare italico, l’accento marcato sul miracolo e sulla caducità del respiro, sullo spreco-havel del soffio divino insufflato nelle narici umane, sul canto di ringraziamento per tutto questo. Occorre uno spirito da cercatore della verità per imparare a vederlo. Come quello del figlio di Pietro di Bernardone, appunto, o del figlio del conte Monaldo di Recanati, pessimista solo per incuria e faciloneria ermeneutiche. L’egida di Qohlet (maestro di nichilismo, sì, ma in nome delle ragioni della vita) dà la stura al Leopardi poeta-prosatore-pensatore per confutare le «magnifiche sorti e progressive» della storia umana, ovvero l’inconsistenza di un ottimismo paravento e “tappabucchi” che priva di spessore e profondità la vera speranza, disconoscendone quindi il salutare attrito, il «fuoco della controversia» (Luzi) con una realtà non per forza figlia di affanno né di una rassegnazione nichilistica.
Senonché fare poesia non è atto di disperazione. Persino laddove il dialogo con l’Alto dei cieli ricade miseramente sulla terra, la «solidal catena» sposta alla linea dell’orizzonte umano l’anelito alla fratellanza creaturale. Se ci volgiamo ai grandi poeti di ogni luogo e tempo, avremo in risposta un coro: il verso non sorretto dal motore della speranza è un aborto, una destinazione troncata, un futuro sfiorito.
Per esempio, Emily Dickinson:
È la “speranza” una creatura alata
che si annida nell’anima –
e canta melodie senza parole –
senza smettere mai –
E la senti dolcissima nel vento –
e ben aspra dev’esser la tempesta
che valga a spaventare il tenue uccello
che tanti riscaldò –
Nella landa più gelida l’ho udita –
sui più remoti mari –
ma nemmeno all’estremo del bisogno;
e il mistico Rumi:
O, cuore, non perdere la speranza.
Abbi fiducia,
perché molti sono i prodigi
oltre la cortina dell’invisibile.
Vedere dove non c’è (ancora) niente, oltre il limite del nulla, dove preghiera e poesia si incontrano sul terreno comune della mistica. Il Nada degli infuocati d’Amore che trova interpreti insospettabili anche nel corso del Novecento, secolo atomico di polverizzazione delle ultime certezze conoscibili: «O cara speranza, / quel giorno sapremo anche noi / che sei la vita e sei il nulla» (Pavese). Eppure mai come in questo secolo di modernità fraintesa abbiamo ritrovato le radici di carne e respiro della speranza, come ad esempio nella promiscuità di vita e morte della trincea che fa esclamare a un poeta, posto davanti all’evidenza di un orrore disumano, mentre aspetta l’alba del giorno nuovo: «Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita».
in copertina Ludovico Gimignani, «Riposo durante la Fuga in Egitto» (particolare), 1664 ca, olio su tela, 78×49 cm, Ariccia, Palazzo Chigi, collezione Lemme







