“[…] esiste un libro che qualcuno ha scritto; ma qualcuno per averlo scritto non diventa quel libro. Sarebbe piuttosto auspicabile che un libro diventasse qualcuno, e cioè presenziasse se stesso, esistesse dunque (con qualcuno che ogni tanto possa anche letteralmente dargli voce), ma anzitutto ‘in silenzio’, e con tutta l’eloquenza che solo la pagina scritta, de-finita, è capace di sprigionare. E perché ciò avvenga è necessario, ovviamente, che qualcosa ‘si muova’ aldilà dei moventi. Un libro non risponde che a se stesso, o per meglio dire in sé, e scriverlo vuol dire anzitutto liberarsene, non giustificare. Significa liberarsi. Andare al mare. «Nuota dunque! Colpisci col capo quest’onda che si rovescia contro di te, con te si frange e ti rovescia». È necessario avere polmoni capienti: Enzo Maiorca e Paul Valéry nuotano insieme; prodigi dello stile libero. Se ancora qualcuno volesse lamentare la mancanza di spazi per sé e di giusta considerazione, bisognerebbe (per il bene di tutti) indicare il precipizio alla fine della passerella, o reprimerlo, incappucciarlo; persuaderlo a comprare una casa in campagna, e a ‘viverla serenamente’. Stando così le cose, è necessario dar più voce ai libri (portarli fuori dalle librerie che li imbavagliano, nei centri commerciali, nelle stazioni di servizio o in quelle metropolitane; dall’avvocato a sbrigare le pratiche per il divorzio, dal carrozziere, in spiaggia e nelle sale d’aspetto dei medici di provincia, insomma ovunque s’agiti in verità la vita e cioè fuori dai giri della criminalità organizzata che vorrebbe inchiodarli al romanticismo illuministico e deleterio delle classifiche, delle fiere, dei titoli, delle identità) e ridurre drasticamente lo spazio ceduto a chi li scrive; abbassare il volume; se necessario ricorrere al cloroformio. Educare al silenzio.”.
(Giuseppe Carracchia, da “Educare al silenzio. O Del cloroformio“, saggio conclusivo del volume di versi “Prova del nove”, Ladolfi Editore, settembre 2015)
dalla sezione MOTI E RIVOLUZIONI
Il verbo infinito
I
Se chiedi che propositi in margine
al tentativo possa avere
molteplice è l’augurio (e delle sue
sfaccettature forse tacerò
le più importanti): come i poeti
ad esempio viaggiare
o meglio attraversare alla maniera
di Wang Wei, intitolando atti e opere
con nomi nobili, compresa l’opera
dell’universo, l’atto che ribadisce,
compresa la nobiltà del comprendere
pari a quella dell’incompreso. Viaggiare
in autunno; ecco cosa vorrei
ribadire: chiedere ad uno
sconosciuto la via di casa; cercare
fiori di susino dopo una
nevicata; trascorrere l’estate
in un boschetto di bambù; deporre
il fardello ai piedi del noce
nel folto di un’antica fustaia. Abbracciare
infine ciò che non si dice. E poi
la mia preferita: osservare gli altri
coltivare la terra, prenderne atto,
riporre fiducia alla fiducia;
dimenticare di averlo fatto.
II
Molteplici le vie, infiniti
in superficie tracciati solchi
profondi nella boscaglia nascosti
o grandi canyon d’asfalto
portano da cuore a cuore
attraversando il mondo, tutto
conduce sempre sotto
mentite spoglie, mentre
il sotto riaffiora talvolta
carezza, pugno o enigma
in croce prima e poi albero
e dopo germogli e foglie
e via via rami linfa e infine
seme, tutto
ciò che può condurre
conduce noi ad un’unica parola
che preme il ventre
che sventra superbia
che vita dicendo sé stessa
diviene, tutto
ciò che può condurre
conduce noi ad un’unica parola
e non è l’amore, sappilo, non
l’idea conchiusa, ma l’amare
la transitività del verbo – idea
pronunciata – parola schiusa.
E poi l’uscita dall’idea
e l’entrata nella vita.
*
da PRESOCRATICA
una poesia d’amore
L’ho visto, la notte di Natale
quel barboncino col muso
raso terra e un vento
che mulinellava il pelo
e l’occhio mesto, come se
fossimo stati in piena Siberia
come nel cuore della steppa
nella bufera. «Io so
tutta la sua gioia» mi sono detto.
«La so, comunque».
Pochi metri più avanti
seppi anche uno dei nostri
tre gatti, sul ciglio della strada
col corpo ancora fumante
e non so bene quale
degli organi rotolato fuori.
*
È davvero così che avviene
dopo secoli d’ottundimento
ed esitazione, disarmarti è d’obbligo:
un silenzio sradicato dall’asfalto, quasi
davvero potesse impollinarci lo sguardo
che finalmente impara
passo dopo passo l’età del tempo:
«adesso vorrei semplicemente
prendere la sua testa e stringerla
tra le mani, stringerla
forte al petto».
*
(ma io so, io vorrei sapere
tu sappia quanta vita vissuta
ci appartiene e quanta ancora
a venire, e quanta furbizia
per ritrovarsi inermi
nel mondo intero, intatti
ma io so, e vorrei tu ne fossi certa
che alla fine – nel cuore
pulsante dello sfacelo –
basterà abbracciarsi)
*
La resina dei giorni perduti
dei giorni anzitempo creduti
tali e mai davvero persi
non temere, e neanche quella
che credi banale insensata
vita che ti si incolla fastidiosa
tra le dita. La resina
dei tuoi occhi
con questa preghiera in versi
io raccolgo scrostandoti
non per farne ambra suppellettile
come certi del passato poeti
ma per toglierla dalla tua vista
per sgombrarti la strada
liberarti dal simulacro
che potresti divenirmi
e divenire a te stessa
e che forse
almeno in parte
già sei. «Ma è umano», mi dico
«davvero, sta’ tranquilla»: la bellezza
– ne sono certo – ha radici invisibili
chilometriche
e la fiducia cieca brilla
sotto la patina di cataratta
credendo sempre la vita più forte,
sempre la vita che brucia
ogni residuo di morte.
*
E bene o male tu puoi
ricordare almeno questo
arboreo ritornello, puoi
amarlo: “ma nei nodi
nei nodi nulla
mai davvero può il tarlo”.