«Io son colei che è persa per il mondo,/ che vaga senza un nord, per strade storte,/ del Sogno son sorella, e a questa sorte/ son crocefissa, afflitta nel profondo.», versi lucidi di Florbela Espanca, scelti per segnalare “Questo mio corpo sfamerà le rose”, pubblicato da Interno Poesia nella collana “Interno Novecento” che accoglie cento sonetti tratti dalle tre raccolte dell’autrice portoghese: il “Libro delle afflizioni” (1919), “Libro di Soror Saudade” (1923), pubblicate in vita, e “Brughiera in fiore” (1931), uscita postuma, allestita dall’autrice prima della dipartita. L’ultima sezione proviene dalla silloge inedita, “Reliquiae”, uscita nel 1934. La Espanca, nata nel 1894 a Villa Viçosa, è resa celebre dai suoi sonetti, che da un lirismo profondo sfociano in una visione, insieme, panteistica e sensuale. Curatore e traduttore di “Questo mio corpo sfamerà le rose” è Graziano Graziani che abbiamo intervistato.
Con “Questo mio corpo sfamerà le rose” di Florbela Espanca, inizio col chiederle: perché (oggi), dalla voce del curatore, leggere questo libro? Cosa può la poesia “contro” la dilagante incapacità di ascolto e cognizione?
Ognuno trova una propria motivazione nella lettura. Per quello che riguarda Florbela Espanca posso raccontare qual è stata la mia. Si tratta di un’autrice molto amata in Portogallo, paese che ho frequentato per un po’ di tempo, e mi ha sempre sorpreso come un nome importante in un contesto culturale possa risultare quasi sconosciuto in un altro. Io credo che la poesia di Florbela possa facilmente superare le barriere di contesto, perché contiene una componente universale: il desiderio di scrivere come gesto che dà senso all’esistenza, la condizione femminile, il desiderio di amare, un panteismo immaginario in cui ci si sente in comunione con il mondo pur sentendosi costantemente fuori posto. La sua è poesia è piena di immagini, scritta in una lingua che trova la sua complessità nella semplicità: è la costruzione della musicalità e dell’immagine interiore, più che il verso ricercato, a costituire l’ossatura dei suoi versi. Il che però non toglie che esista anche una ricercatezza dell’espressione. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, io credo che la poesia contro l’incapacità di ascolto non possa nulla. La poesia è una possibilità che ci si offre: di conoscere l’universo interiore di qualcuno distante nel tempo e nello spazio, che magari non c’è più, e di cercare ed esplorare affinità e distanze attraverso il veicolo della parola poetica. È più di quanto si possa sperare per confrontarsi con la caducità dell’esperienza umana.
Quali parole la trovano se le chiedo di tratteggiare Florbela Espanca secondo l’idea che, in un lungo tempo di ascolto, le hanno “restituito” i suoi versi, meglio il suo “fare” poesia?
Più che parole mie, penso alle parole di Florbela. Sogno, lacrime, angoscia. Esaltazione, creare, poeta. Luna, ombra, terra. Baci, mani, destino. In una serie di parole ritornanti in coppie, in terzetti, legate a volte dell’assonanza e a volte dal desiderio di plasmare un’immagine interiore, emerge il chiaroscuoro della sua poesia, fatta di scoramento ed esaltazione. Di tutte quelle giravolte della vita interiore che ci accompagnano anche quando indossiamo una maschera di calma.
“Ah! Essere nient’altro che infinito,/ essere ghiaccio, essere granito,/ o un ruggito dentro la foresta.”, la poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?
Per Florbela la poesia è soprattutto lingua del valicare, dell’andare oltre. Il suo è un continuo incitamento al buttarsi, al non lasciarsi schiacciare dalle circostanze. In più di un’occasione afferma che è meglio amare, vivere, sognare che non farlo. E anche quando nei suoi versi prevale la desolazione, il sentirsi vuoti e poco considerati in un mondo di lettere soprattutto maschili, quell’amarezza è raccontata come un destino, più che come una rassegnazione.
“Guardo nel vuoto, pensierosa e scura,/ il volto mio è come acqua di lago,/ volto d’avorio, volto di clausura.”, la poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta?
Ancora una volta la poesia non può nulla se non creare un ponte di parole. Questo ponte, nel caso di Florbela Espanca, più che una cura è uno strumento di conoscenza. Conoscere la propria solitudine significa forse soffrirla in modo diverso, perché può diventare fonte di creazione. Ma, come afferma anche lei più volte, non c’è redenzione in questo processo, solo attraversamento, ma un attraversamento a suo modo luminoso.
Pensando alla sua attività di traduttore domando: la poesia è realmente traducibile? E se lo, è più corretto parlare di traduzione o di reinvenzione, di riscrittura?
La poesia è traducibile, ma ogni traduzione non è mai coincidenza con l’originale. Esiste comunque uno scarto e lì si inserisce (discretamente) la voce del traduttore. Ogni autore o autrice è un mondo linguistico a sé e chiede soluzioni specifiche. A volte è possibile essere molto fedeli, a volte è più complicato. Nel caso dei sonetti di Florbela Espanca ho scelto in alcuni punti di distanziarmi dall’originale, per privilegiare la sonorità: tutte le traduzioni del volume pubblicato da Interno Poesia sono in metrica, in endecasillabo; oltre due terzi sono anche in rima. Un lavoro del genere presuppone anche un distanziamento dalla letteralità, che può essere criticabile. Io credo, tuttavia, che nel caso dei versi di Florbela Espanca la musicalità del verso sia una delle chiavi d’accesso principali al suo universo poetico. Per mitigare questa scelta, ad ogni modo, è stato fatto un lavoro che ha quasi sempre privilegiato la scelta di termini alternativi che tuttavia sono presenti nel vocabolario di Florbela, in altri componimenti. La ritornanza di certe parole e il gusto per l’assonanza della stessa autrice hanno favorito questa soluzione. E con l’editore abbiamo deciso di pubblicare le traduzioni con l’originale a fronte: la prossimità di portoghese e italiano consente al lettore di orientarsi nelle soluzioni dell’italiano e comprenderle a ridosso dei versi originali.
E, ancora, la poesia (dal suo punto di vista) è più ispirazione o più costruzione? Qual è stato, ad oggi, un “insegnamento” ricevuto in dono dalla poesia o, se preferisce, “semplicemente” da un verso?
Per me, che scrivo molto in metrica, costruzione e ispirazione vanno di pari passo. Non coincidono sempre, ma si sovrappongono, si intrecciano. A volte l’ispirazione parte da un verso che, grazie alla sua sonorità, alla sua naturale metrica, apre la porta per un componimento poetico. Altre volte l’immagine, per essere davvero definita, ha bisogno dell’ossatura di una versificazione costruita. L’una cosa dà forza all’altra.
Sceglierebbe (riportandola), e per salutare i nostri lettori, una poesia della Espanca che ha cambiato (più di altre, e ammesso sia accaduto) il suo essere nel mondo (e, magari, spiegandoci il perché di questa scelta/preferenza)?
Ho sempre ammirato la capacità di rovesciamento della poesia di Florbela Espanca, in grado di passare dalla disperazione all’esaltazione. C’è una delle sue poesie erotiche, legate all’amore, dove la condizione di donna dei primi del Novecento – che sa che il suo amante non le sarà fedele – non si traduce in disperazione, ma in desiderio di splendere ancora di più. Senza rinnegare il suo posto nel mondo, lo trasforma da una posizione di debolezza a una posizione di forza, e lo fa attraverso le parole. Si intitola “Supremo enleio”:
Nel tuo passato quante donne, quante!
Tante ombre in giro! Ma che importa?
Se vien da loro il sogno che conforta
quelle venute son tre volte sante.
Innalzata da Dio l’erba infestante,
rosse foglie appassite alla tua porta…
Non ero che infelice cosa morta,
Ma quante donne ancora! Quante! Quante!
Ma sono l’alba, io: spengo le stelle!
Mi bacerai e vedrai in ognun di quelle,
perfino in bocca alla più bella. E ora
quando verrà anche l’ultima, all’istante,
in quel corpo di donna conturbante
troverai il mio che non conosci ancora.
(la versione ridotta di questa recensione-intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 09.03.2025, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).