Rita Greco (La gioia delle incompiute)

È probabile che scrivere poesia sia il tentativo di conoscere in profondità se stessi, l’altro, le cose del mondo. È probabile che scrivere poesia equivalga ad avere la vocazione del minatore. Lungamente si scava, e poi si canta il risultato dello scavo, le macerie, la minuscola scaglia d’oro. Occorre assumere la postura degli attenti al piccolo, al nascosto, all’insignificante, occorre uno sguardo fermo, un occhio senza riposo.
Si avanza per lampi, per tagli, a volte: un improvviso irrompere della luce, un fulmineo accesso al vero, una visione. Si trasfigura la realtà per meglio conoscerla, a volte, si dà voce all’inconscio, e l’inconscio non mente e la poesia non deve mentire.
È probabile che scrivere poesia sia abitare un’ardente solitudine, un nitido silenzio, dai quali può fiorire la parola nuda, una parola che, si spera, voglia essere ascoltata.
È probabile che scrivere poesia abbia a che fare col nominare la ferita e, nominandola, tentare di guarirla; con l’incontro con la propria ombra che chiede di essere onorata e quindi rischiarata (“onora la tenebra come onori la luce e rischiarerai la tua tenebra”, esorta Jung); con i molti interrogativi – rigorosamente senza risposta – sullo scorrere del tempo, che in alternanza dilania e incanta, mentre offre il volto all’eternamente incompiuta condizione dell’essere umano e al suo invincibile tendere verso la compiutezza. Càpita, poi, che da questa tensione si possa setacciare una forma di gioia, quella dell’attesa, nel cui limbo tutto è ancora possibile, anche l’interezza. È probabile che scrivere poesia sia tutto questo, insieme a molto altro. Probabile, non sicuro. Tuttavia, “nulla è sicuro, ma scrivi” (Franco Fortini).

(Rita Greco)

Ciò che resta con sé
(dalla prefazione di Alfonso Guida)

“Tenersi stretta la gioia / delle incompiute”, recita l’incipit di una poesia di Rita Greco. E questa incompiutezza dell’oggetto e del soggetto, delle cose e dell’essere, permea del suo illudente bagliore di soglia l’intera, rocciosa escursione di versi cantati in un rovescio di sé, all’esterno, guardando la morte, che si sconta vivendo, da un davanzale. L’incompiuto non è solo una presa d’atto dell’interminabile processo evolutivo e involutivo della res che resta nascosta come un’ombra, un animale tra siepe e tana, ma si intreccia anche a una nostalgia della potenza. Qui si procede a ritroso. Si vuole rasentare il guscio dell’uovo originario, la sua carica eversiva, la sua condensazione, sintesi del Tutto. L’io è un lume minuscolo che si allinea alle luci pulviscolari del circondario cosmico e antropico.
Rita Greco scrive per stare luministicamente dentro le cose e sta dentro le cose aspettando la deflagrazione, lo scoppio del seme, la fioritura del germoglio. Su ogni sillaba aleggia un’aria di giardino dove a prevalere sono le aiuole delle “Composite”, una specie botanica impronta di compostezza e complessità, sorgente puntiforme che si estende in un ricorso dolente a ciò che già si possiede, a volte un tu indefinito e trascolorante, a volte la sera del canto solitario “nella culla dolce del chissà”. Tutto il paesaggio dell’incompiuto appare, minuzioso e raccolto, nello spazio di un lumen-limen, in una fiammella di preghiera, in un lirismo di stagioni dove tutto è e resta in gestazione.

 

testi scelti dalla silloge “La gioia delle incompiute” di Rita Greco, Ladolfi Editore, 2021.

 

Tu credi che io
non abbia voce
è solo che mi hanno detto
nel dubbio, taci.

Ma il dubbio
è il nostro pane quotidiano

e allora ho lasciato
lievitare
un soffice silenzio.

*

Fin dove ho potuto
reggere il tuo sguardo
la curva del giorno
mi ha dato clemenza.
Avevo cura dei tuoi occhi,
li carezzavo quando non sapevi.
Ora l’orizzonte
è una macchia
che non so decifrare.
Dentro ogni parola
cade il mondo.

*
Mi chiamo incompiuta
la pioggia ha un cuore che trema
e neppure una lacrima

io non ho cuore
ho un gemito lungo
un pensiero interrotto
senza occhi né bocca né verbo

sono il bordo dal quale mi affaccio

brucia la fronte del vento
delira con me spezzettata

la polvere è il mio testamento

come un lenzuolo annodato
mi contiene
il silenzio.

*

Prima che il giorno accada
saremo abbondantemente nati.

Viaggiavamo sul ciglio del dirupo
come affacciati a una finestra

stringiamoci, mi hai detto,
cos’altro ci resta?

*
Sulla finestra abbandonata
cerca il nome occulto

guarda in controluce

sulla polvere
è segnato con un dito.

*

Dormiveglia

In dormiveglia fiume
fa rima con solitudine
chissà perché

in quel limbo delicato
in cui non sono e finalmente sono
dimentica di me
totalmente sono e suono
fonte scrosciante dei perché
lavata nella grazia del puro esistere
in cui risposta è la domanda stessa
sono e non sono e suono
nuda me sola veramente
me desta.

*

Non conosco il tuo mistero
cadi a pezzi
compiuta
in ogni scheggia
l’intero.

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