“L’etica dell’acqua” di Giuseppe Manitta. “Un libro che si concentra su una presa di coscienza civile e personale.”

Questo è un libro di topografie. Il titolo prende spunto dal giudizio sulla società presente in “Wasted lives” di Baumann e, di conseguenza, dalla teoria della società liquida. Da questa ispirazione, si legge la migrazione come necessità e, quindi, come espressione più antica all’interno della società stessa. Ci sarebbero, per assurdo, tracce di ciò anche nell’uomo che professa una sorta di ostrica verghiana (quindi il disadattamento allo spostamento). Si può persino immaginare che costui ha l’esigenza di trovare una propria geografia nello spazio limitato di un’abitazione, all’interno della quale preferisce un ambiente piuttosto che un altro. Lo spazio, dunque, nel quale viviamo è a sua volta complice della forma che assumiamo (complice in senso fisico, ma anche psicologico e antropologico). L’esigenza di dare a noi stessi una determinata forma nello spazio conferma, in apparenza, che siamo vivi. Eppure, al contempo, ciascuno subisce il fascino dello spostamento come desiderio di realizzare un’altra forma di sé. Così è la migrazione: il risultato della ricerca di questa geografia personale. Andando oltre, se badiamo al contenuto e non alla forma, oggi l’illusione finale sarebbe quella di superare il possesso esclusivo delle personali topografie. In sostanza, questo è un libro di utopie.

(Avagliano editore, 2021)

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “l’etica dell’acqua”?

La scintilla sta proprio nell’acqua, nell’universo che racchiude, nel movimento, nella sua capacità di scorrere tra le geografie. Oggi si parla spesso di società liquida, ma se tornassimo all’etica dell’acqua, per certi versi, potremmo sentirci non tanto liquidi nella disappartenenza, quanto liquidi nell’appartenenza a tutto. Mi spiego meglio. Ciò che mi ha sempre affascinato è la capacità dell’acqua di attraversare le geografie con il suo flusso, anche quando sembra apparentemente statica, e di riuscire ad adattarsi a queste. Io, per casualità, ho sempre cambiato geografie, e non parlo di viaggi di piacere, ma proprio di luoghi abitativi. Alla fine raggiungi la consapevolezza che appartieni a tutte e pienamente a nessuna di loro. Da qui anche il quesito civile: e se avessimo una coscienza delle nostre geografie meno egoistica?

Dove sei stato condotto dalla poesia e cosa credi possa la poesia per sorreggere la “Presa di coscienza”?

Sono fermamente convinto che la poesia sia riflessione. Se mi chiedessero come definirei i miei versi, addirittura li indicherei come “civili”. Però mi rendo conto che è una strana poesia civile, al contempo lirica e filosofica (se mi è lecito il termine), forse lontana dalla stessa definizione che altri ne potrebbero dare. Su un aspetto però sono certo: la poesia è il luogo del dubbio e il dubbio, anche se non conduce a una presa di coscienza, è il campo di prova della coscienza. Oggi più che mai si ha l’esigenza di riflettere, di studiare il mondo in cui viviamo con una curiosità costante. Novelli Ulisse che quotidianamente lottano e si chiedono il perché delle cose, senza presunzioni di sorta. Questo è un po’ lo spirito del libro.

In che modo la vita diventa linguaggio?

La vita è linguaggio, tutto ciò che diciamo, facciamo, esprimiamo è linguaggio e la poesia ne è una delle forme per eccellenza. Per questo credo che la poesia, al di là dei temi che può avere, è una riflessione linguistica. Ciò significa sondare le possibilità dell’espressione, ma anche sondare le nostre stesse possibilità. La poesia è vita? Sì, in fondo la poesia siamo noi, perché siamo esseri che hanno la necessità di comunicare con gli altri, anche per le cose di tutti i giorni, e con noi stessi, per trovarci e ritrovarci quotidianamente.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

In questo continuo procedimento linguistico esigenza primaria è la conoscenza. Tutti abbiamo bisogno di comprendere (noi, il mondo, gli oggetti e via di seguito) però arriviamo a un punto in cui la ragione si arresta, non riesce ad andare oltre. Quell’oltre alle volte lo possiamo esprimere indirettamente, quell’oltre è l’invalicabile che la poesia sa dire al di là della parola in sé.

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?

Premetto che non credo alla verità, ma a ‘una’ verità. Detto questo, la forma è parte sostanziale di essa perché è lingua, e la lingua è espressione di ‘una’ verità. Si tratta di una questione antica quanto la scrittura e la filosofia, basti pensare ai presocratici, a Platone, a Aristotele, per arrivare agli esistenzialisti, al decostruzionismo, agli ermeneutici e via di seguito.

Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?

Questa è la domanda più complessa che mi è stata posta, perché non esiste una ‘ricetta’ da seguire. Esistiamo noi, la lingua, la riflessione, l’inconscio e mille altre variabili. Forse per iniziare è necessario sapersi ascoltare e saper ascoltare (e per fare ciò la lettura è certamente qualcosa dalla quale non si può prescindere).

Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?

Mi ha aiutato a conoscere il vuoto e il pieno che mi stringe.

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal libro “l’etica dell’acqua” – (riportala gentilmente) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Non avere una geografia
significa avere tutto,
avere l’arte di creare cose che non ci sono,
godere della gioia della perdita
prima ancora dell’approdo
e soffrire per un porto mai raggiunto.
Sognare sempre.

“L’etica dell’acqua” è un libro che si concentra su una presa di coscienza civile e personale. Questo è il testo scritto proprio in quel momento. Ricordo che fu uno squarcio, un’apertura immediata sul mio essere in un determinato luogo, mio e non mio al contempo. L’ho scritta sull’Etna, mentre osservavo le geografie dall’alto. Per questo parlo della gioia della perdita, perché alle volte avere il coraggio di perdere qualcosa significa acquistarne molte altre. La risposta sta proprio nel viaggio e non solo nell’approdo. La poesia nacque così com’è, mi sono solamente tormentato sull’ultimo verso. Il tormento nasceva dal fatto che, per un pregiudizio, il sogno spesso può essere considerato un banale denudamento, però, a ben vedere, abbiamo bisogno di sognare e non dobbiamo avere paura di farlo.

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