Parola d’Autore
Un racconto di corpi che salgono, che scendono, corpi che si dicono addio, affidando se stessi, le rispettive scarpe, al trasporto di un ingranaggio che elude ogni volontà. Per i dieci personaggi di Scale Mobili, non esiste più una speranza che possa cambiare il corso delle rispettive vite. Rappresentano una metafora esistenziale, un segno distintivo del terzo millennio, un presente storico in cui molti di noi si lasciano spingere da una corrente che li affranca da sforzi fisici e mentali. Pensare… agire… ricorrere all’ impulso consapevole di un’identità indomita, avere il coraggio di spegnere un pc, uno smartphone, il motore di una macchina e andare a piedi, insomma dire basta a qualunque immaginario o concreto nastro trasportatore.
La scrittura breve delle storie parallele che compongono ciò che può essere definito un “domino narrativo”, si riallaccia in parte alle suggestioni del Nouveau Roman, all’ école du regard, a quella scuola dello sguardo che negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento riunì in Francia scrittori come Marguerite Duras, Alain Robbe-Grillet, Claude Simon, e tanti altri. Comune a quel tipo di scrittura fu l’interesse rivolto alla focalizzazione suggerita dalla macchina fotografica o dalla cinepresa, aggiungerei riguardo a Scale Mobili, l’attenzione dell’occhio dell’autore rivolta più alle cose che alla costruzione dei personaggi, a quei luoghi che possano mettere in rilievo aspetti del carattere dei medesimi tali da cogliere attraverso la scrittura le sfumature – come le chiamava Dostoevskij ne L’idiota – degli uomini comuni. Così leggendo Scale Mobili basta inquadrare un gesto su un gradino che sale o scende, colto all’interno di un segmento temporale circoscritto, per raccontare i momenti risolutivi delle vite umane che vi si affidano: il passo incerto, “un tic da gambero” di Rosario, il gioco isterico di un bambino mai cresciuto, la posa esangue di Michela, malata di cancro, il sonno ubriaco del barbone N con la testa poggiata sopra il gradino di una scala bloccata. Ancora sul medesimo oggetto mobile, incorniciare Cinzia, una donna che vuole tanto bene alle bambole, il politico Silvio e il suo scrivano Giacomo, il maestro Arturo Contini, concertista insigne, e Linda, la sua amante, Iva e Nora, compagne che dividono lo stesso supporto metallico. Tra le pagine conclusive del libro, uno sguardo finale all’interno del Grande Magazzino Made in Italy, ripreso in un giorno di svendita nazionale, anche questo spazio metafora di un tempo di crisi alla ricerca del saldo presente. Tutto qui? No… un’ultima occhiata a sorpresa nella scrittura saprà cogliere una speranza…
Tra scale mobili una scala immobile
Se Michela viaggia in un vagone di vetro e Rosario indugia sul proprio basamento senza decidersi a fare un passo avanti, un uomo del quale è difficile stabilire il nome giace supino su una scala mobile spenta, una delle tante dell’aeroporto di Roma. No-trolley, avverte un cartello, spesso ignorato da chi si muove con premura verso i gate degli imbarchi.
Terminal 3: partenze, arrivi, ritiro bagagli, servizi igienici chiamati con eleganza toilette. Aeroporto Leonardo da Vinci, in un giorno non diverso da tanti altri. La massa umana in transito è più o meno costante, salvo qualche eccezione in alcuni mesi dell’anno come il freddo dicembre o il caldo agosto, periodi di vacanza insomma. Variazioni più o meno rilevanti di folla che si somma ad altra folla, negli spazi estesi dell’aeroporto della Capitale. La gente si disloca, si muove in un mondo grande ma raggiungibile in ogni luogo e quando si vuole, serve solo avere tempo a disposizione e denaro da spendere. È semplice decidere una vacanza, programmare una partenza, non occorre più recarsi in agenzia. Basta accendere il PC e comprare il biglietto online con tutti i vantaggi che comporta: l’acquisto o la scelta del posto a sedere, fare il check-in online, tutto è già programmato per ammortizzare i tempi d’attesa e passare direttamente dai controlli di sicurezza.
Fuori è giorno, anche se dentro un aeroporto il tempo ignora ogni variazione di luce. La gente arriva, va in albergo, rientra a casa per chi possiede una casa, uno spazio asciutto, una famiglia e un letto dove dormire. Tale fortuna non riguarda certo il corpo dell’uomo steso sulla scala che d’ora in poi definiremo immobile. I gradini sono bloccati, alcuni non del tutto staccati dal rullo, inceppati a metà. L’uomo si trova in basso, rannicchiato, avvolto in un cappotto fuori misura. La testa sul primo scalino è poggiata sopra un cuscino di stracci. Quest’uomo è un barbone come il suo aspetto dichiara e definisce, a causa di una trasandatezza esteriore che gli impone come condanna d’adattarsi senza ombra di remora alla precarietà. Non può esserci altra soluzione quando non si ha più dove andare, né si hanno delle forbici per tagliarsi unghie e capelli, un rasoio per radersi, acqua e sapone per lavarsi, un gabinetto privato dove evacuare. Quando non si possiede più nulla di necessario, necessariamente il corpo umano diventa randagio, occupa senza permesso spazi occasionali per riposare in un dormire che somiglia al morire come del resto l’immagine della scala che osserviamo suggerisce. Una scala dai gradini interrotti, bloccati, come accade nel momento in cui la signora con la falce recide ogni respiro, lasciando il corpo in una posa contratta e sorpresa.