Scrivo poesie per rimescolare la pace

 

Manfredi Beninati, untitled, oil on canvas, 2005
Manfredi Beninati

 

Scrivo poesie per rimescolare la pace. Per scorticare e poi annullare le inevitabili ferite. Per ritrovare il segreto delle sfumature, quelle che la prosa quotidiana cerca di soffocare. Per me il dire poetico è necessario. “Che sia la sua medicina” mi consigliò il mio analista. “Scriva come parla qui”.  E mi sono consolata. Mi sono abbonata ad uno spartito in cui cerco armonia tra il sentire e il dire e, questa ricerca è continua, assillante. Senz’altro debole,  a volte, quando la confusione s’arrangia da sé. E resto zoppa, ahimè!

 

Di sicuro c’è un mondo che si scrive da sé. Inafferrabile.

Come le foglie che trovi già morte al mattino. Non t’hanno

chiamato per la leggera agonia. Si sono staccate e basta.

Si sono chinate verso l’erba, senza quell’infinita vanità

che ogni addio regge. E, pure il fiore si spoglia. Si sparge

sulle lumachine e non t’avverte. Senza latrare svia dai suoi

colori. E così fa il verde del grano, l’ugola del cardellino.

L’occhio del clandestino. Il passo dei tuoi baci. Al mattino.
  

 

 
Nel sottocuore
Edizioni Akkuaria (2006)
 
Sulla poltrona,
a coda ritta,
miagola il sole.
È pallido, scaduto.
Al balcone,
bizzarro sonaglio,
si pettina un ricordo.
Non grido declina.
Gioca sul cuore, molle,
opaca, un’ombra.
Freni e coltelli
porta un vento a formichine
dipinto. Scavalca il
sudato dolore. Mite punge.
Confina nel silenzio un sopraccielo.
Così, ecco, come una docile soffitta.
E. Lucidamente azzurro, il pettirosso muore.
 
*
 
Di te prendo ora questa briciola.
Non te. Non il tuo sapore.
Tu hai un cuore. io. Forse due.
Un plenilunio di sangue
o
impacco di memoria.
Tu hai un’anima.
Mille assenze, io.
Che a tempo, poi, definiremo.
 
Opacità infedele.
Disobbedienza.
D’amore. Come.
 
*
 
Stanno le amiche lontane e i pini in pieni rami.
Uomini in bicicletta, a quest’ora, si portano al mare.
E i panni al poco sole. Le spose che s’acconciano, vuote.
Si ripete per me il preparare le ordinate cose.
Dentro i vasi, l’acqua, nel bicchiere il vuoto,
quasi gentile, d’un cerchio che non s’apre.
Ecco, alle vele io vivo. Dai tetti le annuso.
Ora più inquiete. Ora solo più stanche.
Accanto al mare.
 

 

  
Leggere sull’unghia
Edizioni  Tempo al libro (2011)
 
Baciami ad occhi stretti.
Non sul collo. Sul resto
quieto delle dita. Sulle vertebre
soffocanti. Baciami
su questa inesattezza laboriosa
che pane ti fa e malocchio.
Inalba. Cose dice alla finestra
E. Così. / le voci dei cani, i
corridoi, le valigie /
  
*
 
Sono
le parole che scrivo
figlie rimaste
stilla eccidio
madre a contare
padre in vece
La cornea di copia
la borsa della spesa
l’errore d’umorismo.
 
*
 
È domenica
Anna
orgia d’aghi di pino
carne di cielo
 
Tu lì
io qua
goffe negli angoli
 
Scriviamo
il sapore del lino
ninnoli indolori
De’ poeti
 
 *
  
Nei vetri dopo notte
qualche viso resta
conce per collo e schiena
 
Ieri ho fatto il pane
separato la schiuma del mare
                                 la crosta delle lame
 
All’ora
transito
 
In bocca lo specchio mi bacio
 
                                      Doppio
                                                a capo.
 

 

 
Quadernomillimetrato
Incertieditori (2012 )
 
È complessa una pausa. È un’onorificenza
alle labbra, all’immaginaria resa d’una tonsilla.
Per gola. Per feconda avarizia che risucchia
l’occorrente. E svillana la fretta. I fiocchi
che altrimenti sgualcirebbero. Non posso, certo,
ancora dire: – Scusate, ho visto
un’amministrevole consapevolezza,
camminarmi accanto, un applauso di passi, un
cesto di fortunate giaculatorie. – Qui c’è solo
un’architettura d’echi. Un imbarazzato orecchio
che si consegna alle mani. Poi, nel poi, le
benedizioni. Il piccolo inchino. Ai giorni
congiunti. Ai sì dei no. Alla cortese attenzione.
Al post scriptum. Forse a inverno. Una sera.
 
 
*
 
 
Esco. Dopo questa sigaretta che mi cessa
in gola. A far pezzi di passi. Dal vicolo che porta
alla casa gialla. All’infrangibile aria delle finestre
incartate. Verso il mare. Vado. A far notturna
la sera. A suonarmi le dita nelle tasche. Aiuta
gli occhi una felicità inaddormentabile. Che nei
capelli sta. Come i primi viaggi alleggeriti. A far
spese di gocce per le labbra. Ribes sapore. O
sole speso a grani. Anche s’è buio. E virgola
un treno ripetuto. Da nord a qui. Per tratti.
Esclamativi.
 
 
*
 
Voglio l’ora silenziosa.
la confusione delle persiane
l’erba che succhia il sasso
la tacita, piegata buonanotte
 
 
*
 
Ti dico madre che nell’infermità del ricordo,
a volte, perdo il debito dei tuoi occhi. Mi fido
della brusca prontezza dei miei. Stiro riscaldo
le ciglia, faccio nottate d’espressioni, finché
riappari. Quadro pensiero. Quasi del tutto viva.
Gelosa nei capelli, la bocca che pinza smorfie.
Ma non mi arriva in pancia la tua voce.
Le sillabe dei sillabari dolorosi. La tua punta
eterna di rondine che non vola. Mi pronunciavi
tintinnosa, m’accentavi d’ago fino. E mi voltavo
indietro, ogni volta ripassavo la giaculatoria che
ti perdonava. Non m’ero vestita che di nastri e
sangue per pulirti la bocca, le gambe di fontana
senza fiotti. Sapevo, riconoscevo tutte le ostie
che t’ingoiavi dentro quel segno che mi
comprava, ginocchia, spalle, caviglie. Così
t’ancoravi a una postura illuminata. Così so
perché nel mio paese di pelle e corda
improvvisate, tu mi t’inchiodi nei vasi, a notte.
Nel cranio dei limoni, nella plastica sopra i
divani.
   

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