Mussapi, The conversation of voices

Roberto Mussapi The conversation of voices su l'estroverso

Anteprima

Roberto Mussapi, The conversation of voices
(Algra Editore, Ginestra dell’Etna, Collana di poesia diretta da M. Cucchi e A. Di Mauro)

 

 

“Un paesaggio poetico d’insieme quanto mai articolato e coinvolgente, felicemente aperto”.

(Maurizio Cucchi)

Villon, Baudelaire, Keats, Shelley, hanno traduzioni valide, ma non quella voce che sento io. Non sono io, il poeta-traduttore il salvatore della poesia, ma uno che dà continuità alla specie, che fa vivo oggi, nella sua lingua e nel suo tempo, qualcosa creato e detto e scritto in altra lingua a altro tempo. La mia versione non è l’unica valida, tutt’altro, ma è per me necessaria. Io sono il mio presente, un poeta è il presente, solo il presente, pena la rinuncia a sperare che l’opera perduri. La durata della poesia non è concessa se l’opera nasce da una fuga dal presente. Ma è resa possibile se il presente è dilatato, se l’attimo è graziato da un traboccante senso dell’eterno. Quando io traduco, curo, introduco, sto narrando. Raccontando l’avventura del l’autore, i suoi versi, il suo lavoro, la sua vita… è un libro difficile, questo, ambizioso, pubblicato guarda caso (ma non a caso) in una terra particolarmente difficile e ambiziosa. La mia lingua poetica è nata in Sicilia, lo so e lo sento, questa terra è, con la Toscana, la culla della lingua grazie alla quale io esisto. Poi c’è l’innesto dell’inglese. Potente. Linfatico. Dell’inglese che ha nel correlativo oggettivo una costante genetica, necessaria ai miei globuli, e poi il latino, pieno, rotondo, lucente. Poi sono molto poundiano, non cruschista, mi piace la poesia sporcata e sporca, dove tante voci, junghianamente, si mescolano. Thomas Eliot, i Magi, non gli accademici. […] Quando scrivo un libro tutto mio, di mie traduzioni, io, dico proprio un po’ spaventato “io”, mi trovo in un poema di voci d’altri, spesso più grandi di me, fatte caparbiamente, ma anche umilmente, mia. Ecco il ritardo, la paura. Io sono anche le loro voci. Più sonanti, quasi sempre, della mia. Ma io continuo la specie dei poeti. Questo non è un libro che assomma traduzioni, è un libro mio dove la mia voce affronta tante voci che ho amato e che mi formano. Strano: non c’è Coleridge, uno dei poeti più importanti della mia formazione, e che per ragioni misteriose non ho mai tradotto. Lo farò. Non c’è Byron, di cui la mia traduzione del Beppo è uno dei miei vanti, non importa se legittimi. Non ci sono, per una scelta precisa i miei contemporanei, viventi, in primis Yves Bonnefoy, Wole Soyinka. Gradisco che restino il più a lungo possibile poeti viventi, pur essendo già classici, e non autori inclusi in una scelta di voci che oggi non parlano in questa valle di lacrime ma anche di risa e felicità che è l’esperienza terrena. Li voglio con me, a tavola.

(uno stralcio dall’introduzione di Roberto Mussapi)

 

 

Robert Louis Stevenson

Terre straniere

Chi può salire sul ciliegio, in cima,
se non io, come ho fatto prima,
tenendomi aggrappato con tutte e due le mani
per guardare paesi strani e lontani?

Ho visto il grande giardino confinante
pieno di fiori colorati e di piante,
e tanti altri luoghi belli ancora
che non avevo mai visto finora.

Ho visto il fiume scorrere e incresparsi
col cielo blu che vi andava a specchiarsi,
le strade polverose salire qua e là
con gente che arrancava verso la città.

Se potessi trovare un albero più alto
vedrei più lontano con lo stesso risalto,
dove il fiume cresciuto va a sfociare
tra le navi ondeggianti in mezzo al mare,

dove ogni strada, da qualunque lato,
conduce infine a un paese fatato
dove alle cinque la cena è finita
e i giocattoli prendono vita.

 

La Terra del copriletto

Quando ero malato e quasi sempre a letto,
con due cuscini stavo un po’ eretto,
e tenevo tutti i giocattoli intorno
per far passare in qualche modo il giorno.

E a volte stavo anche un’ora a guardare
i miei soldati di piombo là a marciare
con diverse uniformi e bandierine
tra le lenzuola, lungo le colline,

e urlavo alla flotta a squarciagola
di salpare tra leone e le lenzuola,
o piantavo con cura le mie piante
e edificavo una città distante;

ero insomma il gigante grosso e regale
assiso sulla collina del guanciale
che vede la pianura e il vallonetto,
l’amena Terra del Copriletto.

 

Il paese dei sogni

Dal mattino in poi per tutto il giorno
me ne sto a casa con gli amici intorno,
ma ogni notte parto e mi allontano
nel paese dei sogni, remoto e strano.

Devo andarci da solo, completamente,
nessuno che possa dirmi niente,
da solo risalgo i fiumi ondosi
e salgo verso i sogni misteriosi.

Strane cose mi stanno ad aspettare,
cose da guardare e da mangiare,
e tante visioni orride in quel mondo
finché al mattino non cambia lo sfondo.

Inutile cercare di ritrovare la via,
di giorno non ricordo dove sia,
né riesco esattamente a ricordare
la strana musica che udivo risuonare.

 

Storia di pirati

Noi tre nel prato ondeggiante a navigare,
noi tre a bordo del cesto nel prato.
Soffiano venti primaverili sullo scafo lanciato
e onde nell’erba come onde nel mare.

Dove ci porterà il mare, quale avventura
attenti al tempo e seguendo una stella?
Farà rotta per l’Africa la nostra caravella
a Providence, a Babilonia dalle alte mura?

Ma ecco una flotta da guerra avanza sull’onda,
una mandria nel prato minacciosa muggisce:
meglio scappare ché la mandria impazzisce,
il cesto è il porto, ilgiardino la sponda.

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