Come non fare i conti con Facebook? Dopo il cellulare, il cambio di moneta, la sempre più intensificata frequentazione digitale, eccoci imbattuti nella Grande Madre della comunicazione, questo grembo sociale gremito di identità reali, doppie, distorte, d’ogni sorta. Subito viene in mente il Paese dei Balocchi collodiano dove i bambini attratti dai giochi luccicanti finiscono per ragliare asinini. Qui, in luogo della metamorfosi fonico fisica possiamo registrare una crescente involuzione narcisistica, la scoperta, convulsa esibizione di sé, che non risparmia nessun momento personale di raccoglimento. Infatti sulla piattaforma virtuale si manifestano dolori privati, come lutti (s’ostenta l’amore per il proprio caro defunto), insoddisfazioni lavorative, fanatismi religiosi (quando non orgogliosi ateismi), indignazioni su fatti pubblici, politici e di cronaca (luoghi comuni, sfoghi razzisti violenti e ottusi si sprecano); e ancora, diffusione di immagini dei propri inconsapevoli pargoli (neonati perfino, per la felicità dei pedofili in rete) gare a chi ha più “amici” virtuali dell’altro, dichiarazioni sul proprio – volubile – stato sentimentale (basta una lite per far sapere a tutti che si è ritornati “single”), per non parlare di chi, trovandosi in vacanza, per esempio, a New York, anziché godersi lo stupore che dovrebbe destare un posto nuovo, è tutto impegnato a scrivere urbi et orbi della sua presenza nella tanto ambita città americana. Dunque morboso sfoggio di sé (anche in termini erotici molto evidenti, per ogni fascia di età a partire dai tredicenni, con foto e pose così sensuali da rasentare il ridicolo), della propria banalità quotidiana e cadute dell’intrattenimento insulso attraverso test, giochini vari, scacciapensieri – perché il pensiero è bandito nel nostro lobotomondo – vertendo verso un’alienante saturazione di immagini e parole, un’orgia comunicativa spinta fino all’insignificanza e all’annullamento del senso con la maiuscola oltre che della propria individualità. Facile sfoderare il luogo comune “utile purchè se ne faccia buon uso” senza di contro smascherare i veri rischi e le conseguenze sociali tangibili empiricamente: lo svilimento del reale, l’ultima dissacrazione rimasta. In molte conversazioni di gruppo, nei locali o altrove, sovente si sente qualcuno che esclama: “questa foto la mettiamo su facebook” (e successivo coro di si), proiettandosi già di ritorno al suo loculo virtuale, fuggendo dal proprio tempo/momento, producendo istantanee usa e getta. Che senso ha acquisire ricordi da triturare consumandoli subito? Crediamo davvero di salvarci dal fallimento, dalla tragicità dell’esistenza, costellando di impressioni a perdere le nostre vite? Dopo la morte di Dio, la morte dell’io, mentre, come i bambini nel Paese dei Balocchi, ci si illude di trovarsi dentro il migliore dei mondi possibili, fruitori di libertà, ci si mette da soli le catene ai polsi, prigionieri dell’evasione. Adesso vogliate scusarmi, devo pubblicare l’anteprima di questo articolo su Facebook, controllare lo stato dei miei amici e aggiornare il mio profilo.
(l’EstroVerso Novembre – Dicembre 2010)
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