Silvia Rosa, “Tutta la terra che ci resta”, la poesia che dice “della rivoluzione digitale sulle nostre vite”.

tre domande, tre poesie

 

In poesia come si può lavorare incaricando i toni di grigio di attribuire vitalità alla lingua? Occorre augurarsi che l’orientamento dei vivi non perda la strada di casa nonostante svariati congegni ticchettino dentro e fuori le loro tasche. Perché troppi colori tolgono verità al tempo, e chi lo occupa con la sua scrittura potrebbe vantarsi di possedere pezzi di mondo che non esistono più. D’altronde se il cielo perdesse le caratteristiche del suo arco accadrebbe ciò che gli antichi temevano: lo svanire nel nulla dei commerci divini con le rappresentazioni inventive, amorose, e belliche. In poesia si lavora senza smania d’originalità, in onore di linguamadre e terra, riconoscendo questo intreccio di posizione fin nelle più remote radici. È così che le forme diventano quelle necessarie, insostituibili, guardiane di ciò che continua a trasformarsi mentre la gran parte degli uomini scompare e altri arrivano. Ecco che Silvia Rosa, accuratezza visiva alla mano e nella borsa cose difficili da descrivere, ottiche e microcircuiti d’energia oltrepassanti la forza umana, percepisce (e, a valle, scrive) acutamente la verità e le relazioni di un ammasso estetico-tecnologico che da Ovest a Est, da Cupertino a Shenzen, ha occupato tutti i territori geografici, casalinghi e infine corporali. È la terra dopo l’onda di maremoto informatica a trovarsi addosso queste nuove quaranta poesie (numero non certo casuale), la terra che ci resta a ridosso dell’aggravamento, che né destrezza né ingegno hanno evitato s’avviasse verso un imbuto pernicioso. E d’opera si tratta, scritta custodendo le zone più remote delle biblioteche senza la pretesa di riempirle come fosse terapia chimica. Una sorta di resistenza dove l’io manca, ma non per difetto di figura e dialogo, ma perché se l’autrice strenuamente vuole opporsi all’involucro trasparente e impenetrabile, a tenuta stagna (Calasso) in cui siamo avvolti, e guardare verso l’esterno, deve farsi messaggera e meridiano della storia. […]

Le stanze componenti Tutta la terra che ci resta non hanno nulla a che fare con vecchi depositi, testimonianza di certezze preliminari riconosciute sconvenienti, troppo o troppo poco rivolte al naufragio esistenziale: per tutto il Novecento abbiamo assistito ai massacri corporali mentre la cognizione del tempo e dello spazio diventava una schiuma inaccessibile. Abbiamo rivolto lo sguardo, pertanto, all’attuarsi dell’ibridazione digitale con le sinapsi cerebrali, dando il via alla più rassegnata possibilità che mente umana abbia mai conosciuto. Comunque sia, alcuni poeti e poetesse ammettono la smisurata testardaggine della poesia a saggiare quanto la lingua ancora può. Umano è il personale ricominciare daccapo, con modi e sistemi ritenuti “glaciali” nel confronto con esperienze novecentesche ampiamente storicizzate. Sembra inverosimile? O proprio in questo libro iniziamo ad avvertire una posizione poetica basata su parole già conosciute ma distese ora in una culla pronta ad accogliere? Poesia cruda, figlia di una tempra capace di attraversare l’atmosfera schiumosa che noi stessi abbiamo generato, qualcosa che riconosciamo inevitabile pur attraversando i deludenti tsunami editoriali in voga. Ecco, si dovrebbe reagire alla perdita sensoriale per acchiappare al volo chi, ancora accordato al corpo, contrasta la profusione di cose e aggiunge parole diverse a quante ancora attendono d’essere usate. […]

(dalla prefazione di Elio Grasso)

 

In che modo la (tua) vita diventa linguaggio, qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Tutta la terra che ci resta”?

Il nucleo di Tutta la terra che ci resta è nato in un periodo di tempo relativamente breve, grazie anche alle suggestioni che alcuni scatti del fotografo Fabio Trisorio hanno suscitato in me: erano i giorni sospesi e irreali del primo confinamento, e mentre la primavera esplodeva in tutta la sua pienezza, le città erano silenziose, svuotate di passi e di volti. Io trascorrevo molte ore davanti a uno schermo di pc o di smartphone, perché il lavoro e la vita sociale si svolgevano ormai per intero virtualmente, in assenza di corpo, a distanza di sicurezza. Fabio mi aveva parlato di queste sue fotografie scattate con l’iPhone in diversi anni di viaggi in giro per l’Italia, e proprio in quel periodo capitò l’occasione di visionarle. Mi sono sembrate assolutamente profetiche, perché raccontano scorci di città deserte, metropoli che paiono abbandonate e a sé stesse dopo una qualche catastrofe, gli unici colori presenti sono quelli della gamma dei grigi e dei neri in tutte le loro sfumature e tonalità, le rare presenze umane sono colte di spalle, rapite in fasci di luce, in movimento, sul punto di svanire, l’atmosfera è cupa, distopica, con netti rimandi all’estetica cyberpunk. La visione di questa serie fotografica ha aperto un varco nel mio immaginario, mi ha ispirato, dando avvio al processo di scrittura che si è dipanato in poche settimane: i testi grezzi sono poi rimasti lì a decantare per oltre un anno. Quando li ho ripresi in mano c’è stato un lungo e impegnativo lavoro di revisione e l’aggiunta di una parte nuova, finché la raccolta ha assunto la sua forma definitiva.

Tutta la terra che ci resta ha segnato una cesura con quanto ho scritto finora: la mia poesia in passato è stata spesso definita lirico-confessionale, ma in questo libro ho abbandonato l’Io e l’imprinting più strettamente autobiografico, per lasciare spazio a una visione corale e oggettiva, in cui i riferimenti sono il più possibile a fenomeni concreti, materici. Le scelte lessicali hanno richiesto minuziose ricerche, perché mi sono confrontata con alcune microlingue settoriali, in particolare quelle relative all’ottica, all’oculistica, all’informatica, per meglio aderire alla realtà che volevo descrivere. Uno dei fulcri tematici di questo libro è l’impatto della rivoluzione digitale sulle nostre vite, argomento che mi sta particolarmente a cuore e per approfondire il quale ho letto pubblicazioni a tema, molti distanti dalla mia formazione umanistica. Il discorso è incentrato su un cambiamento di prospettiva ˗ da qui il costante riferirsi alle patologie della vista e alla scienza ottica ˗ che vede l’essere umano andare in direzione di una trasformazione radicale, così come ipotizzato dalla teoria del transumanesimo. Mi sono spesso chiesta, non senza provare inquietudine, che cosa ne sarà del mondo, così come abbiamo imparato a conoscerlo noi che lo abbiamo abitato nel Novecento, quando l’avvento delle nuove tecnologie avrà stravolto e trasformato ogni ambito delle nostre attività, e soprattutto che cosa ne sarà di noi, dei nostri corpi. Forse la nostra generazione non riuscirà a vedere il cambiamento nella sua compiutezza, perché siamo destinati ad abitare la cerniera del tempo che unisce due paradigmi epocali, e molto probabilmente non avremo risposte alla domanda su come l’umanità andrà evolvendosi, in quale direzione dal punto di vista etico, ma credo che in parte questo ci riguardi da vicino e che ne siamo responsabili. Quando osservo come si sta modificando la società coeva provo molta ansia e mi pongo numerosi interrogativi. Gli esperti parlano di novità che possono migliorare la nostra esistenza, ma l’incognita è se davvero l’essere umano userà queste tecnologie emergenti ad esempio per salvare la terra dai disastri a cui sta andando incontro a causa del cambiamento climatico o per liberarsi da un certo modo di concepire il lavoro, redistribuendo le ricchezze tra tutta la popolazione, e non piuttosto per arrecare danni irreversibili al pianeta e inasprire le diseguaglianze e le prevaricazioni, solo per citare due delle questioni più salienti al centro del dibattito attuale. In Tutta la terra che ci resta non ho nascosto i miei timori di persona comune, che non ha conoscenze specialistiche in merito, e che si trova a fronteggiare nel quotidiano la pervasività di questo recente modo di vivere, guardando a quanto è andato e andrà perduto (sempre più velocemente) e interrogandosi sull’esito finale di questa trasformazione, ma ho sospeso ogni giudizio e ho lasciato a chi legge la possibilità di cercare una risposta in autonomia.

Riporteresti una poesia (di altro autore) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti, rivelandoci cosa “muove” la tua “preferenza”?

Ci sono diverse poesie, in effetti, che potrei citare, la cui scelta varia anche secondo il periodo e gli stati d’animo di volta in volta diversi. Ce n’è però una di Silvia Bre, poeta amatissima, che per quanto mi riguarda è oltre le contingenze, a cui torno spesso e che risuona forte in me, perché racconta del potere generativo e salvifico della parola, ma anche della lotta corpo a corpo con essa per giungere a dire e a dirsi nel modo più autentico e aderente alla realtà. I versi lasciano intravvedere le polarità tra cui ci si muove in questo tentativo di confronto/scontro: abitare la parola nella sua interezza cogliendone ogni apertura di senso da un lato, arrendersi al limite che porta inscritto in sé, dall’altro. Mi affascina l’idea della ricerca di una parola “necessaria”, proprio quella, l’immagine della spina, qualcosa che in apparenza fa male, ma poi si rivela medicamentosa, liberatoria: a me viene subito da pensare alla parola poetica, che permette di dare una forma a ciò che non ha nome, di uscire dal non detto, non senza affrontare i propri fantasmi e le proprie ombre, e andare incontro a una verità che sia per noi preludio di inedite possibilità di risignificare il mondo e i nostri stessi vissuti:

“e poi mi ha sibilato | e cercarti una parola necessaria | quella con cui restare sola | e fare cena e sonno e vita | la dolce la tenebrosa | assoluta tra tutte da non dire | la spina che ti suona nella bocca | a poi ruggisce perché tu risponda | ti apre e ti disonora ti comanda…| e io mi sono messa | le mani sulla faccia come chi piange | ho visto prima di tutto una prigione | poi sono nata.” [Silvia Bre]

 

 

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro, “Tutta la terra che ci resta”?; di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Ho scelto queste tre poesie: la prima è quella che apre la raccolta, ed è posta al di fuori delle sezioni che la compongono. Esattamente come l’ultima, che qui non cito, è volutamente a margine del racconto, e chiama in causa chi legge, attraverso il verbo “guarda”, rivolgendosi a lei/lui direttamente, invitandola/o a orientare lo sguardo sulla scena che ho tentato di descrivere nel modo più oggettivo possibile, come si trattasse di un fotogramma di un film o di un’istantanea, utilizzando un linguaggio preciso, specialistico, asettico. Ho consegnato questo materiale visivo al lettore perché potesse progressivamente rispecchiarsi in quel Noi che popola lo scenario evocato e all’improvviso sentirsene parte, ritrovarsi protagonista dell’universo dalle sfumature grigie e dalle atmosfere apparentemente surreali che prende forma nei versi, chiedendosi se si sente a proprio agio oppure no.  La seconda poesia fa parte della sezione “Un tono più vivo”, mentre la terza è inclusa nell’ultima sezione, “Dove trovare riparo”: ecco, durante la sua stesura cercavo una metafora che potesse incarnare al meglio la frattura sempre più importante tra il nostro vivere a contatto con la natura e con la parte di noi più legata al corpo, ai sensi, e l’abbaglio di una tecnologia pervasiva che comporta un mutato rapporto con la corporeità propria e dell’Altro e con l’ambiente circostante, e che ci appare così tanto più appetibile. Mi sono venute in mente le falene e quel fenomeno definito fototassi: pare che questi insetti siano attratti da fonti luminose per la loro abitudine a orientarsi in base alla posizione degli astri visibili nel cielo notturno, cosa che provoca confusione e disorientamento quando si imbattono nelle luci artificiali. Forse anche noi siamo confusi e disorientati, al punto da perdere di vista una possibilità di salvezza: preservare questo mondo e ogni forma di vita che lo abita, prima che tutta la terra che ci resta diventi un inospitale spazio, dove la nostra stessa sopravvivenza è a rischio. Siamo davvero di fronte a un bivio: una strada conduce alla rinascita, alla maturazione di un nuovo livello di consapevolezza, l’altra è invece senza ritorno. Quale sceglieremo? 

 

Abbiamo fatto una magia – guarda
rimestato ogni angolo affinché rilucesse
come una moneta di platino
e poi abbiamo preso il cielo
con la punta delle nostre lingue
l’abbiamo lavorato in una scala di grigi
senza più toni caldi e orientamento

così adesso luccicano i nostri passi falsi
sotto il plumbeo che ci schianta,
privi di olfatto per non imbattere nell’odore
di sterco e di tana, bidimensionali e nitidi
ci duplichiamo a latere dell’immagine,
in un’asettica anestesia cromatica, dentro
una cuspide d’ombra, nuova di zecca

*

Viviamo in gabbie stile hi-tech,
con soffitti pseudo interstellari e un dedalo
di ferro e acciaio, in cui lacerti di discorsi
viaggiano tra filari di cavi. Sfregano contro
indifferenze cosmiche, stridono di indolenza,
si capovolgono in giravolte meccaniche
i cimeli del vecchio mondo, ora in disuso.
Dalla preistoria delle prime capanne di paglia,
del paravento di tende come un intonaco alzato
alla schiettezza del nido, ricordano l’architettura
difettosa dei corpi, quel loro disfarsi, uno sbiadire
costante e inevitabile. Ma se opponiamo gli scudi
dei bit, qualcosa di noi resterà anche dopo
l’assedio della carne, noi ci eleveremo più in alto
della trasparenza al quadrato che ci osserva
col suo lanceolato occhio infrangibile,
non conosceremo più l’attrito degli equinozi,
l’usura dei giorni che ci guasta le fondamenta

*

Perforando la fibra sintetica
che oscura l’orbita del sole
scendiamo a precipizio lungo
il rivo amniotico, con la brina
degli inizi addosso e le palpebre
incollate, portiamo l’impronta artica
di monadi inscritta sulla pelle,
il freddo come una condanna

così veniamo al mondo
˗ o scompariamo? ˗
soggetti all’azzardo degli eventi
fra scorie di arenile e uranio
improvvise fluorescenze, scheletri
antropoidi e Intelligenze Artificiali,
assomigliamo alle falene Saturnia
e Cobra che infuriano le ali, confuse,
quando scambiano la luce al neon
per un destino luminoso d’astri

*

Silvia Rosa nasce a Torino, dove vive e insegna. Laureata in Scienze dell’Educazione, con una specializzazione in educazione e formazione degli adulti e un master in didattica dell’italiano L2, ha frequentato il corso di storytelling della Scuola Holden. Suoi testi poetici e in prosa sono presenti in diversi volumi antologici, sono apparsi in riviste, siti e blog letterari e sono stati tradotti in spagnolo, serbo, romeno e turco. Tra le sue pubblicazioni: le raccolte poetiche “Tutta la terra che ci resta” (Vydia Editore 2022), “Tempo di riserva” (Giuliano Ladolfi Editore 2018), “Genealogia imperfetta” (La Vita Felice 2014), “SoloMinuscolaScrittura” (La vita Felice 2012), “Di sole voci” (LietoColle Editore 2010 – II ediz. 2012); il volume antologico “Confine donna: poesie e storie di emigrazione” (Vita Activa Nuova 2022), di cui è ideatrice e curatrice; l’antologia foto-poetica “Maternità marina” (Terra d’ulivi 2020), di cui è curatrice e autrice delle foto; il saggio di storia contemporanea “Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo d’emigrazione al femminile” (1860-1960) (Ananke Edizioni 2013); il libro di racconti “Del suo essere un corpo” (Montedit Edizioni 2010). È vicedirettrice della rivista digitale “Poesia del nostro tempo”, redattrice della testata online “NiedernGasse”, collabora con la rivista “Margutte”, con l’annuario di poesia «Argo» e con il quotidiano «il manifesto». Si è occupata del progetto di traduzione poetica e interviste di alcuni autori argentini, dal titolo “Italia Argentina ida y vuelta: incontri poetici”, pubblicato nel 2017 in e-book (edizioni Versante Ripido e La Recherche). È tra le ideatrici del progetto “Medicamenta – lingua di donna e altre scritture”, che propone una serie di letture, eventi e laboratori rivolti a donne italiane e straniere, lavorando in un’ottica psicopedagogica e di genere con le loro narrazioni e le loro storie di vita. Conduce laboratori utilizzando le metodologie autobiografiche, apprese nei corsi tenuti da Lucia Portis della Libera Università di Anghiari, insieme alla poesia terapia, di cui ha scritto per la rivista “Poetry Therapy Italia”. La sua attività completa, qui: https://www.larecherche.it/biografia.asp?Utente=silviarosa&Tabella=Biografie 

 

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