La sera cedo ossa,
fratture
e dita al fondo della bocca.
Non funziona la stoccata,
viziato imperativo di metallo
a vecchia forma.
Confessa eredi clandestini
una crepa di verbale
io Sono
– urla.
Tautologico disdire l’assente rinnegato,
e goccia noia.
Il tasto chiuso,
il peso frazionato
e mormorii
capaci d’incordare pezzi di reale.
La forza immaginata d’una scena
tramuta la sua figurazione
al senso guadagnato dal fermento
come terra da se stessa coagulata.
Racconta dieci rive distillate
in certissimo dominio e transito
una stele,
esigenza di riparo
e fruscìo della memoria
incollato a ghiaccio d’essere.
Una vertigine impensata
dipinge la colpa delle mani
in tendini,
nei muscoli cialtroni di giullare
al fondo inerme
d’un accesso combinato.
Sapessi pronunciarlo
questo gioco dell’assalto
schiuderei la custodita pulsazione
a un istante di risata
e tratti d’occhi
come l’ultima risacca a vele piene.
Strapperei questo chiodo alle giunture
e forse nascerei inesplorata.
Io non dimentico la polvere:
voglio.
I margini barcollano sfumati
e Sono/Voglio il gesto d’un taglio rumoroso,
il sintomo,
il tempo lieve di vapore e la mia daga.
Voglio divorare anche i detriti
a questo rito,
a questo tradimento dilatato.
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