Limbo, o lembo, l’orlo; il limitare dell’inferno dantesco, dove rimangono sospese le anime e dove oggi abitano gli stati d’ansia e d’inquietudine, lo stare in pena. Un limbo erano i camminamenti e le mura silenziose percorsi nei primi quattro mesi da Giovanni Drogo, nell’attesa della visita medica periodica, che gli avrebbe dovuto consentire di lasciare la Fortezza Bastiani. Limbo è una danza esotica durante la quale un ballerino, senza perdere il ritmo della musica, deve passare al di sotto di un’asta flettendo all’indietro la schiena. L’asta è la quarantena, che si abbassa di settimana in settimana su di ognuno di noi e ci obbliga ad una torsione maggiore, verso terra.
«Sospiri, pianti e alti guai / risuonavan per l’aere senza stelle, / per ch’io al cominciare ne lagrimai» e si continua (canto terzo dell’Inferno dantesco, limbo) con la spiegazione di Virgilio, «Rispuose: « Dicerolti molto breve. / Questi non hanno speranza di morte, / e la lor cieca vita è tanto bassa, / che ‘nvidiosi son d’ogne altra sorte ». A lamentarsi sono gli «sciagurati, che mai non fur vivi», che hanno consumato la loro esistenza senza assumere una responsabilità morale per le proprie azioni e verso la vita. La possibilità della scelta è data a chiunque, a prescindere dalle condizioni sociali, economiche, geografiche nelle quali si è nati. Non aver scelto è perciò il motivo della condanna di queste anime costrette ad un rimpianto infinito, nel tempo senza morte del limbo dantesco.
Prima o dopo, la musica si fermerà e la nostra danza caraibica di flessione e resistenza per piegarci e passare al di là dell’asta dell’isolamento, della sospensione delle attività, della residenza forzata, dell’inattività impotente, gradualmente si allenterà, come il suono di un giradischi con le batterie scariche, come l’allarme anti intrusione, innescato dal vento nel cuore della notte, che va spegnendosi in un laconico lamento, sempre più smorzato.
Come saremo? Quando in montagna, sulle Alpi, a maggio, si aprono le porte delle stalle per liberare il bestiame rinchiuso durante i mesi invernali, si assiste all’uscita frenetica delle mansuete mucche che, tra galoppi leggeri e muggiti festosi, in quell’occasione ricordano i tori da rodeo. Non esiste un vocabolo in italiano («transumanza» si riferisce genericamente alla movimentazione degli animali su un ampio raggio territoriale), poiché la lingua colta non apre da tempo il catenaccio di un bovile, ma ogni dialetto ha un suo termine per indicare questo momento di passaggio, per esempio in livignasco è mudér (dal latino mütāre, mutare, cambiare).
Saremo migliori? Sono sempre mucche. Qualche ora di pascolo nell’aria nuova, sui declivi assolati, ruminando, e torneranno docili bestie d’allevamento. Noi non troveremo erba tenera. A differenza delle mucche, potremo però scegliere di regolare il nostro bisogno di ritrovato spazio e possibilità di movimento, sebbene in un ambiente sociale devastato dalla crisi economica, seguendo un principio etico fondato sul dialogo. La costruzione di legami interpersonali, caratterizzati dalla profondità emotiva, è una delle due forme possibili di felicità, oggi. (L’altra è lo sviluppo del proprio talento). L’autoeducazione morale è la più semplice ed appartiene alla maturità della persona. La maturità (quel: Ripeness is all), scaturisce all’improvviso (Cristina Campo), e non avviene perché si ha più tempo a disposizione per cercare se stessi, o per una prolungata quarantena, bensì è legata necessariamente a due emozioni primarie: la paura e l’amore, e delle due l’amore è senza alcun dubbio la più terribile, la più feroce, perché costringe il soggetto a rimettersi al mondo da sé, scegliendosi come essere umano e non come casualità biologica.
Una breve digressione sulla parola «maturità», tratta dal volume di Yves Bonnefoy (Readiness, Ripeness: Hamlet, Lear, in Shakespeare et Yeats, Paris, Mercure de France, 1998) per distinguere due diverse «maturità»: una è una forma passiva di accettazione dell’insensatezza della vita, lo staccarsi da ogni illusione, la «prontezza» (readiness) nel saper accettare tutto quanto avviene (Amleto), molto vicina alla virtus di Machiavelli; l’altra è una «maturità» (ripeness) come riconoscimento degli altri, un aprirsi all’esperienza unitaria del Tutto, secondo i principi di giustizia, compassione, condivisione. Un mutare, un cambiare passando dall’egoismo alla solidarietà, attraverso l’accettazione della nostra finitudine. Da Readiness is all a Ripeness is all (King Lear) si assiste cioè ad una trasmutazione o, ad una transumanza dalla cattività della stalla all’Aperto del mudér.
Possiamo distinguere due diverse paure legate alla morte. Una riguarda noi stessi, la seconda è rivolta all’ansia di perdere i nostri cari. Della paura di morire non diremo nulla, se non che è più addomesticabile della seconda, mentre Il timore per la scomparsa dell’altro ci porta dritti nell’emozione dell’amore. Infatti, è qui che si è meravigliosamente esposti al vuoto, in quel limbo, quell’orlo tra il vivere una vita consapevolmente o l’esistere, semplicemente. Una precisazione: l’altro non è (solo) ciò che considero mio di diritto (mio padre, mia madre, mio figlio, mia figlia, mio marito, la mia compagna ecc. ecc.), l’altro non è riducibile a proprietà, possesso, ma è un sentire la sacralità della vita, nella sua universale manifestazione. Nessuno, o quasi, può abbracciare l’Altro inteso come totalità. Comprendere dentro di noi la sofferenza di tutti ci ucciderebbe all’istante, o ci renderebbe folli. Nessuno può accogliere il dramma di chi ha perso tutto, di chi trattiene tra le dita un lembo di rete metallica in un campo profughi, o di chi subisce le percosse di compagni violenti; o, ascoltare il pianto del medico, che deve dire ad una persona ormai senza più voce, che non può avere un figlio accanto, a causa delle regole di contenimento dell’epidemia, ogni volta, ogni giorno, ogni ora come se fosse il suo caro, il suo medico, il suo lutto. La scelta di esserci, di dire sono qui, però, è praticabile nell’impegno quotidiano con chi si trova vicino a noi: un’amica, un collega, un incontro; è nel non lottare per accaparrarsi il meglio, nel lasciare qualcosa che possa servire a chi sopraggiunge, non svuotare forsennatamente uno scaffale del supermercato, ma prendere solo quanto basta. Tra noi e l’Altro c’è una fitta, infinita, rete di micro relazioni, di io-tu che ci tiene uniti e che si alimenta. Le altre forme di paura non sono emozioni primarie, ma sono spesso sentimenti di sott’ordine creati dai crescenti populismi per farci dimenticare chi siamo e cosa possiamo fare. Non abbiamo bisogno di personalità autoritarie, di un bolsonaro, un trump, un orbán, un putìn. Ognuno di noi ha la possibilità di raggiungere la maturità scegliendosi come persona per bene. Il rimedio è la povertà, come scriveva Goffredo Parise sul ‘Corriere della Sera’, il 30 giugno 1974, «povertà che non è miseria, ma godere dei beni minimi e necessari». Che cosa guadagneremo? forse, saremo un po’ più felici per questa vita che abbiamo difeso con i denti.
Aimara Garlaschelli
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Aimara Garlaschelli, poeta valtellinese, ha all’attivo due raccolte di poesie, ‘Figure di silenzio’, Lietocolle, Faloppio 2016, e ‘Il rito delle ore’ (posfazione di Stefano Agosti), ETS, Pisa 2019, nonché una curatela con traduzione a fronte, T. S. Eliot, ‘La terra desolata’ (introduzione di Anthony L. Johnson), ETS, Pisa 2018.