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Carl Kylberg

Nel vasto mare della letteratura nuotano pesci di varia grandezza, di indole diversa e suscettibilità notevolmente diversa. Ci sono soprattutto, in mare, pesci che abitano in fondo e pesci che sono profondi. Ed è nell’ordine naturale delle cose che il pesce grande mangi il pesce piccolo o in alternativa che il pesce ben nascosto aggredisca il primo pesce che si trovi a passare. Ci sono anche pesci piccoli che si muovono in branco e per attaccare non aspettano che il segnale. C’è pure chi, nel vasto mare della letteratura, si vorrebbe liberare una volta e per sempre della poesia lirica. Del pesce lirico, per rimanere aderenti alla metafora del marfondo. Sempre ammesso che esista tout court il poeta lirico e con esso la poesia lirica. Nel vasto mare della letteratura, i pesci che per così dire mostrano tendenze minimaliste non sono forse neppure tanti, ma certo sono bene armati, allertati, asserragliati ciascuno nel proprio anfratto. E arrabbiati, a quel che sembra. La lirica è retorica, mormorano, meglio la retorica minimalista. Sembra, allora, necessario e quanto mai opportuno a questi poeti ridotti per così dire all’essenziale, rintuzzare il filo del ragionamento di coloro che invece non disdegnano — ma solo quand’è il caso — lasciarsi trasportare dell’afflato lirico. Pensano sia doveroso, anzi, fare in modo che i coaguli sentimentali di questi ultimi si dileguino rapidamente, che il loro vago linguaggio venga bandito dalla carta stampata. Il linguaggio verrebbe così tratto agli arresti domiciliari. Secondo la filosofa politica Hanna Arendt «ogni volta che è in gioco il linguaggio, la situazione diviene politica per definizione, perché è il linguaggio che fa dell’uomo un essere politico». E dunque, anche nel vasto mare della letteratura i pesci nuotano liberamente e le secche qualche volta si svuotano per fare posto a fondali ben più profondi. Lo Spirito — lo sa bene la pagina bianca — soffia nientemeno dove vuole, generando all’occorrenza maree, agitazioni e qualche istantaneo clamore. La poesia, dal canto suo, chiama le cose con il loro nome, e il linguaggio lo crea; ogni poeta insomma è un politico di professione che nuota nel vasto mare della letteratura e perciò anche nel mare forse un po’ meno vasto della politica.
In quanto al linguaggio e alla sue patenti contraddizioni, poi, non fa certo difetto l’aneddotica. Come quella volta, a Vienna, nel bel mezzo delle discussioni sul Tractatus di Wittgenstein, Neurath e Schlick. Si opponevano, i componenti del Circolo di Vienna alla metafisica: Ha senso — dicevano — solo ciò che può essere verificato empiricamente. Salvo poi rendersi conto che anche questa loro perentoria affermazione non avrebbe mai e poi mai resistito neppure una volta alla prova di un misero fatterello. Nel senso che la metafisica travalica ogni confine, così come anche la poesia, mutatis mutandis, travalica ogni confine. Non è possibile cancellare la metafisica dal ragionamento scientifico, così come non è possibile liberarsi del lirismo in poesia. Se ne facciano una ragione i fabbricatori di cliché a tutti i costi e i riduzionisti intransigenti.

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I

Sul sagrato della Chiesa
Madre di Sortino
letto sventrato dal sonno

tra i ciottoli levigati
dal torrente Guccione
mi riconosco indicibile
cumulo di memorie

svaniscono così senza fretta
le geometrie di questo mosaico

come il suono della voce
del banditore di lupini
che in lontananza si deforma
e ruminando inghiotte

memorabile vancale(1) di cui
non rimane che
uno sfigurato ordito

balza colma di luce
che sorprende sempre

dove bello era perdersi
giocare a palla avvelenata

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III

È una frattura scomposta
questa piazza di selci
scheggiate nere e bianche
dove sbocciano
appartati fiorellini gialli

e chiazze d’erba

mentre Cristo alla colonna
attraversa come uno squarcio
all’alba del venerdì Santo
il sagrato della Chiesa Madre

sciamano curiosi

a schiere
a fughe solitarie
a file spezzate

storditi dalla veglia
hanno negli occhi
la luce dei falò

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V

La verità si assenta
tra ombre che dileguano
e spazi vuoti
sul portale barocco
di questa fabbrica giallo ocra

grinzosa
a me così tanto cara

sospende il ritmo della narrazione
mi osserva e mi interpella
con la pazienza del padre misericordioso

attende il suo momento
la verità

trattengono il fiato
l’uva rampante i pampini lucenti
foglie d’acanto merlature
cornucopie ghirlande

e scolpisce un varco il silenzio

le colonne tortili si direbbe
allunghino in fine al cielo
impietrita selva di braccia

capovolte cantilene

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VI

Mi punge il cuore un sentimento

un’ape versa a goccia a goccia
nell’anima che si tinge

delle calde sfumature del miele di timo
ogni suo dubbio

il mio cuore semplice
stringe distanze difficili da colmare

una misura frantumata dall’abitudine

incoerenze di questo luogo offeso

una misura incline alle vertigini
è il mio cuore

vivo lampi di autentica solitudine

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IX
ascoltando i Notturni di Chopin

Ma è situata altrove la mia casa
la mia dimora dalle grandi foglie inermi
dove soffia il vento e si accende la vita

ci conduce la sete
all’altro capo della matassa

indicativo assente

la mia casa permeabile al dolore
la mia impervia residenza
è affollata da uomini e cavallette
né peggiori né migliori
da come li ha fatti fin qui
la mia indulgenza

è popolato dalla musica
il mio alloggio tutto nuovo
dove dentro è fuori
e fuori è dentro

da interminabili spazi vuoti
è popolato il mio rifugio
da lunghi sguardi interdetti

terra incognita
dove la parola si sposa
con l’immagine

e io farò in modo che una
di queste pietre inutili

finisca nelle mie tasche sbrindellate
e vivrò come sono vissuto fino a oggi

amerò come nell’ora del bisogno
la mia casa situata altrove

amerò con il coraggio di amare
la mia dimora di luce

nella mia residenza ci sono
lunghe oasi d’ombra

amerò così come ho amato
quello che non conoscevo

oltre la mia casa
oltre la mia dimora
dalle grandi foglie inermi
dove il vento soffia

e una di queste pietre
inutili
riempirà le mie tasche.

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