“Dentro gli occhi i girasoli”, l’ultimo libro di Beatrice Ricottilli

Parlare di Beatrice Ricottilli è la cosa più spontanea e al contempo più impegnativa ch’io possa fare. Infatti, se la sua persona è a me tanto vicina (proprio al suo fianco, tra le pareti dell’Archivio di Stato di Sulmona, si è formata una parte significativa della mia fanciullezza), la sua opera rifugge da ogni tentativo di classificazione critica. Questo ovviamente va a suo vantaggio. Non è solo con la scrittura che Beatrice riesce a rompere ogni argine, travolgendo il lettore che affronta un suo testo; è piuttosto un modo di sentire, d’intonarsi al ritmo delle ore e alle regole delle stagioni, di farsi assalire dalla vita senza restarne sopraffatti. Non azzarderei riconoscendo nella sua figura un monstrum: così i latini definivano ciò che, in virtù di doti eccezionali, scardina ogni convenzione interpretativa.

     Quando Beatrice mi chiamò per occuparmi di Dentro gli occhi i girasoli (Ortona, Edizioni Menabò, 2019), rivedendone i testi e curandone la prefazione, mi sentii dire: «Soltanto tu puoi farlo», e so che aveva ragione. Non perché io possieda particolari doti letterarie ma per la speciale affinità che da sempre mi lega a questa ragazza dai capelli di grano. Intesi subito che, dopo vent’anni di silenzio (il suo primo ed ultimo libro, da autrice e non da studiosa, risale infatti al 1999: L’aria che respiro, silloge di versi pubblicata dall’editore romano Fabio Croce, con prefazione di Dante Maffia), era giunto il tempo di mettere nuovamente a disposizione dei lettori la sua dimensione così trasparente e al contempo impenetrabile. Stavolta si trattava di un’opera in prosa, quasi un pastiche di racconti, più o meno brevi, più o meno descrittivi; a volte un improvviso accamparsi di parole in cui il suo lirismo “congenito” è sempre in agguato.

     Se nell’introduzione a Dentro gli occhi i girasoli ho già avuto modo di addentrarmi nella matrice letteraria del libro, in questa sede vorrei approfondire il tema distintivo della sua poetica: la Natura, e in particolar modo la Terra. Nel secondo libro delle Georgiche (che cito nella brillante traduzione del latinista sulmonese Mario Giammarco), Virgilio esalta la vita campestre in questi termini: «Fortunati anche troppo, se i loro beni sapessero, / gli agricoltori! ai quali lontano dall’armi discordi / la terra stessa giustissima un facile vitto fornisce». Più di chiunque altro Beatrice conosce il pregio della iustissima tellus, da lei curata con la pazienza e l’ascolto che il vero amore richiede. Virgilio loda alcune precise qualità del nostro paradiso naturale: «… una pace serena, una vita inesperta d’inganni, / ricca di varie dovizie, e riposi in aperte campagne / […] / quivi giovani avvezzi al lavoro e contenti di poco, / la pietà degli dèi e il culto dei padri; tra loro / l’ultime orme segnò la Giustizia fuggendo la terra». Proprio la vergine Astrèa, figlia di Zeus, fuggì dai nostri lidi perché disgustata dalla corruzione degli uomini ma abbandonò per ultima la campagna, lasciandovi una traccia duratura di giustizia e moralità. Ecco che Beatrice ritrova nel corso ineluttabile e multiforme della terra, nel ritmo silenzioso e scandito della vita agreste, nel rispetto per ogni creatura (nel senso più lato, direi “francescano”, del termine), la propria giustizia, la propria moralità.

     Racconti come Fermo immagine, Centoventi giorni e uno, La neve di Sant’Antonio, I giorni della merla e Con gli occhi della terra sono emblematici in questo senso. Vi troviamo infatti descritto (con la stessa grazia che illumina i suoi occhi chiusi alla prima stella della sera e riaperti all’ultima stella del mattino) il continuo dialogo con l’ambiente naturale che la circonda; dialogo che gli impegni familiari e professionali non hanno mai interrotto (semmai hanno contribuito a nutrirlo). Ecco un passo significativo di Centoventi giorni e uno:

     Si usciva che il sole era appena sorto: pallido, incerto, come è ogni sole d’inverno. Le zolle ad aspettare, bocche irregolari aperte […]; assetate di vita, della stessa sete del ramo e della foglia, del filo d’erba e d’ogni piccolo fiore. Le zolle impazienti cercano il seme e lo scricchiolio deciso del passo di mio nonno. Dentro il grembiale nero […] i chicchi di granturco aspettano la mano rugosa e delicata che li prenda e li liberi. Come da un’acquasantiera cadono giù, gocce di sole, dentro la chiesa che la natura ha edificato per loro. Accompagnano così il lento incedere del seminatore, col braccio mancino dietro la schiena e il pugno chiuso, come per spingersi avanti o per tenere a bada la fatica.

     La liturgia della fatica agreste sembra ripresa dai Seminatori di D’Annunzio: «Poi, con un largo gesto delle braccia, / spargon gli adulti la semenza; e i buoni / vecchi, levando al ciel le orazïoni, / pensan frutti opulenti, se a Dio piaccia». Proprio come nelle Georgiche troviamo una scrupolosa descrizione delle condizioni necessarie per l’agricoltura e l’allevamento. Va notato come Beatrice non sappia prescindere – fortunatamente – da quegli accenti poetici che sempre accompagnano le sue operazioni narrative. A proposito di poesia, e di zolle che attendono a bocca aperta, ripenso a un grande dell’Abruzzo, il quale, ricordando un acquazzone primaverile, scriveva: «La terre che bevute se faceve! / Da tante tiempe avé da stà assetate / e all’acqua mo mille vuccucce apreve / e beveve e beveve a gran sursate». Si tratta del poeta Vittorio Clemente e di quel capolavoro che è Acqua de magge.

     Beatrice non ha bisogno di tradurre in lingua onomatopeica, al modo di Pascoli, il linguaggio dei passeri e della rondine («Questa, se gli olmi ingiallano la frasca, / cerca i palmizi di Gerusalemme: / quelli, allor che la foglia ultima casca, / restano ad aspettar le prime gemme») ma sa comunicare con la loro assenza, o meglio con l’attesa dell’arrivo. Pensiamo a Nina, la gazza ladra protagonista di Con gli occhi della terra, la quale, contro ogni selvatica diffidenza, instaura con lei un dialogo esclusivo.

     Questo ed altro nel nuovo libro di Beatrice Ricottilli, finalmente risorta da quell’ “operoso silenzio” in cui ha tramato alle nostre spalle per vent’anni. Torna quindi per sorprenderci, perché mentre noi consentivamo alla vita, «esperta d’inganni», di affliggerci con l’inerzia degli affetti e delle idee, lei ricamava questo rosario di gemme che ora tocca a noi sgranare, con l’attenzione della preghiera e dell’incanto.

 

in copertina Tramonto sui girasoli di Nunzio Di Placido, 2019

Potrebbero interessarti