“Un Natale senza bambino” di Ottaviano Giannangeli

Sarà stato l’unico Natale senza Bambino… Ora vi racconterò. Sono anni lontani quelli a cui mi riferisco, anni che si perdono nella notte dei tempi. Da quell’aurora di cui vi parlo la scena della vita è mutata completamente: le nazioni d’Europa forse sono sul punto di stringersi la mano. C’è sempre la riluttante, s’intende, ma esse finiranno per comprendersi, per amarsi. Chi sa se un giorno noi – dico Italiani, Inglesi, Francesi, Tedeschi – potremmo udire la messa di mezzanotte in un’unica grande Cattedrale, che avrà per altare il nostro cuore pacificato, da cui i sentimenti sgorgheranno semplici e cristallini, e per cupola i nostri pensieri di mutuo aiuto e comprensione, e per ostia il grano mietuto nei campi comuni, dalle lande russe agli altipiani spagnoli, dalle pianure della Borgogna alle terre riarse dal sole della Sicilia, e per calice il ricordo di tante lotte, di tante sofferenze che noi berremo per un desiderio di catarsi e di contrizione. O se l’uomo, invece, fanciullo che non vorrà rinsavire, reso sempre più caparbio verso se stesso, o consunto dalla noia, vorrà distruggere, per un estremo fatale capriccio, questo bel globo su cui abitiamo. Così, per un gioco di scomposizione…
Ma allora, negli anni lontani, uomini combattevano contro uomini. Cantavano macabre canzoni di guerra e in lunghe file si dirigevano al massacro. La Maiella (una montagna fascinosa di leggende) divideva perfino il popolo di una stessa regione. Si parlava di difesa e di trinceramento, e, se tu volevi assopirti e dimenticare, rombi di cannoni ti svegliavano di un tratto, fischi terribili si prolungavano per l’aria, diffondendo una cupa eco sulle nostre campagne e sui nostri monti. Nei valichi nevosi di questi ultimi c’era gente che, forse impazzita, sfidando scariche falcidianti di ordigni mortali, voleva “passare dall’altra parte”. Si pellegrinava da paese a paese con robe, masserizie, per obbedire ad ordini misteriosi di evacuazione. E la gioventù (perché mai?) era la prima a volersi nascondere ed a fuggire. Tristi masnade “cacciavano”, “braccavano” creature umane come si caccia un lupo o una volpe, “rastrellavano” esseri come si rastrella frumento. Quando si tornava nei paesi abbandonati, gli uomini non trovavano più casa, più focolare. Eppure in quella casa, in quel focolare avrebbe dovuto ardere il fuoco santo, convergere una letizia di bimbi, nascere, sì, anche un Bambino… Tanti anni fa, tanti Natali fa: dieci, undici, ad esempio.
Rastrellamento. Una parola, tra le tante, emerge ora, nell’aurora di questo nuovo mondo, dalla memoria stancata. Ce ne erano stati diversi in quell’autunno 1943: uno alla fine di ottobre, uno nel giorno dei Morti. Io mi ero rinchiuso, nel primo piano della mia abitazione, in uno sgabuzzino il cui ingresso, che dava sulla scala, era stato occupato da un vecchio scaffale di libri, sotto cui mamma mi faceva passare la ciotola della minestra e il babbo le foglie di tabacco, appena essiccate, come foglie di cavoli dalle rilevanti venature, che dovevano servire da materiale da fumo e da nirvana, in quei giorni tristi di transizione. Davanti alla finestra dello sgabuzzino si dondolava un salice che perdeva le sue foglie a mano a mano che l’autunno avanzava. Sorgevano le albe e si spegnevano i tramonti da quella feritoia, e la sera candele di cattiva cera sprigionavano un acre aroma e, insieme, una debole luce per arabescare di ozi letterari i silenzi di quella prigionia… Ah dimenticavo! Nella mia casa i Tedeschi invasori avevano installato una officina meccanica ed una centrale telefonica dal nome criptografico ma suggestivo di eisbär, ossia “orso da ghiaccio”. Così per qualche tempo. Ma i “liberatori” tardavano ad arrivare, ed allora fu forza familiarizzare coi nemici-amici teutonici. Del resto, non erano quei nostri inquilini, giovani di diciotto, vent’anni, a rivelarsi pericolosi. Terrificanti erano le S.S. che si abbattevano di tanto in tanto sul paese, a bordo della loro camionette, come torme di lanzichenecchi, seminando panico e determinando in un batter d’occhio il vuoto delle vie e delle piazze. I più audaci dei miei amici cominciavano a tentare sortite verso il tardo autunno. Anch’io avevo meditato la mia fuga dalla cella, il ritorno alla mia libertà, l’ingresso nel paese per la notte del 25 dicembre.
Mi sarei vestito a nuovo, mi sarei rasato il pizzo “rivoluzionario”, avrei messo anche la cravatta per l’occasione. Come rinunciare alla nascita del Bambino, mentre la campana nella notte santa chiamava a distesa? mentre la stella luminosa brillava per indicare la strada ai pastori?… Già riudivo il chiasso dei bimbi nella chiesa (il lieto frastuono dell’infanzia) al momento d’aprirsi del sipario sull’altare. «È nato, è nato!», avrei gridato come ai giorni lontani. Ero per uscire. Ma ecco che una voce sinistra si diffonde nel villaggio ed incrina improvvisamente l’aura di miracolo: Tedeschi in borghese avrebbero approfittato dell’occasione per fare una retata di civili, di forze valide, per rastrellare i giovani…
Così non ti vidi nascere quell’anno, per l’unica volta nella mia vita, Bambino di Notte di Natale. Ma da allora più ansiosamente sperai di vederti un giorno discendere dal Cielo per benedire Italiani e Tedeschi, ed anche Americani e Russi, ed anche Abissini e Senegalesi e Coreani; di vedere una grande Cattedrale che avrà per altare il nostro cuore pacificato, e per cupola la nostra mente piena di pensieri fraterni, per ostia il nostro grano mietuto nei campi comuni e per calice il ricordo delle nostre lotte e delle nostre sofferenze; la Cattedrale che si leverà, in una ritornata gioia di vivere, dal nuovo patto sancito tra gli uomini, nella tua luce, Bambino di Notte di Natale!

LU BAMBINE

di Ottaviano Giannangeli

Nu finamunne. E venne la Natale.
Ma nen vedive nasce lu Bambine
a chela grotte fatte pe’ pazzie
assopr’all’avetare. Ce vuleve
ì de core a cantà la Pasturelle
come da vajjunitte. Ecché, la tende
che s’apre a mezzanotte, e pe’ la chiese
nu strilla strille: – È nate, è nate, è nate! -.
E l’orghene che sone forte e ammante
tutte le voce. E lu Bambine ride
tra l’asene e lu vove, la Madonne
e San Giuseppe. È nate, è nate, è nate…
– Papà, fammece ì! – M’ere tagliate
la barbe. Ma na voce malandrine
gire pe’ lu paese. Li Tedesche
vuonne acchiappà li giuvene massere.
Se reprepare lu rastrellamente.
E nen vedive nasce lu Bambine.

Trad. IL BAMBINO Un finimondo. Ed arrivò il Natale. / Ma non vidi il Bambino che nasceva / in quella grotta fatta per un gioco / sopra l’altare. Ci sarei andato / di cuore ad intonar la Pastorella / come da fanciulletto. Ecco, la tenda / che si apre a mezzanotte, e per la chiesa / un gridare: – È nato, è nato, è nato! -. / E l’organo che suona forte e copre / tutte le voci. Ed il Bambino ride / tra l’asino ed il bove, la Madonna / e San Giuseppe. È nato, è nato, è nato… / – Papà, fammici andare! -. Già la barba / era tagliata, ma una brutta voce / serpeggia nel paese. Quei Tedeschi / voglion prendere i giovani stasera, / altro rastrellamento si prepara. // E non vidi il Bambino che nasceva.

(L’articolo “Un natale senza Bambino” apparve dapprima nella rivista “Libera Voce”, Lanciano, 1954, e successivamente nel periodico scolastico “Pigreco”, Sulmona, 20/12/1956. La poesia in dialetto abruzzese “Lu bambine”, che fa parte del poemetto “Li tedesche”, fu pubblicata nella raccolta “Lu libbre d’Ottavie”, Sulmona, Libreria Editrice Di Cioccio, 1979, e in seguito nell’opera omnia giannangeliana, “Quando vivevo sulla terra”, Castelli, Verdone, 2017.)

Aleksej Kondratyevi ich Savrasov, Serata d’inverno, 1850 1860, disegno.

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