Josef Sudek, Gesso, 1945

 

 

 

*
 
Se tornassero vive le morte
mattine di un tempo volubili
anni conficcati nel cielo
se risentissimo l’azzurro
gas di scarico dell’ape
l’uguale memorabile elenco
delle mercanzie se riscendesse
l’insensato odore di incenso
sull’altalena improvvisata
se ci sfogliassimo il petto
e risalissimo ai primi capitoli ai volatili
volti che ci attendono ciascuno
sulla porta di casa gli occhi in cui
brilla una mezzaluna di luce…
 
 
*
 
 
Chi dice che la luce meridiana
che gli scorreva sotto la coppola
quando ci accennava della prigionia
una luce che il ricordo filtrando
fa più pulita con pulviscoli lenti
sospesi nel pesante cielo egiziano
non sia la stessa che mi figuro io
adesso richiamando l’episodio.
La ragazza la immagino smunta
immobili anni di guerra incapaci
a sbandarne la bellezza la cesta
di panini ferma al fianco «Tony,
Tony» il cuore così sgrovigliando
per burla o meraviglia di labbra
«Tony, a kiss for me!» disagevoli
manovre senz’erezione attraverso il filo
spinato. Ne ridevamo noi se appena
accennava a portarsi alla guancia
le punte delle dita come
conservassero ancora calore residuo
dei baci di lei. Richiusosi l’incubo tutte
coperte di sabbia le baracche la vita
ritornata alla lucida rispettabilità
di sempre Tony nel fondo
di una tasca militare, d’allora in avanti
don Antonino ammogliato
con prole proprietario di una striscia
di terra in contrada Filiciusa.
Lo conoscemmo noi dopo che furono
volati i suoi anni migliori
colombi che in strada si allontanano
dai resti di una brioche rafferma.
Incerto tra bontà e cattiveria
ma più spesso
disponibile e docile da vedovo
bastava uno spiraglio perché da casa
zaffate proverbiali si spingessero
per un tratto sempre più ampio di via Piemonte.
L’inverosimile chiave che lasciava
scivolare nella tasca della giacca
dopo la doppia mandata alla porta,
le estati che ruotavano sul marciapiede
trovandolo a sonnecchiare su una sedia,
e poi il suo cane volpino dal pelo
bruciacchiato e pulcioso,
che ogni tanto batteva,
Bobby lo chiamavamo,
avvelenato con tre polpette di carne
dalla premurosa pietà delle vicine
e altri microeventi ancora,
rarefatti granelli della memoria,
prima che dispersi o distratti
ne mancassimo la morte.
 
 
*
 
 
Non riceveva visite mai e beveva
sola la sua tazza di latte.
La spiavamo attraverso le tendine
un’ombra nera che si aggirava per la stanza
col suo sempre da fare, che appariva poi
alla porta miope come una profetessa:
 
Ma cchi vuliti?Cu siti?Vativinni, sciò!
 
Gli uccelli acquartierati cantarono
più morbidi al principio del suo innamorarsi
sciolsero le vicine i mandali e gli scialli
agli angoli dove il sole batteva
quando prestava le labbra o chiedeva
denaro a don Antonino, nel chiuso della sera.
 
Una sola estate le morse il petto l’amore poi
occhiute si ritrassero di nuovo da lei
le facciate delle case e la strada, ora
larga a dismisura, le urlava.
Tardi l’amore frenò sui talloni
mise le mani avanti e si tagliuzzò
le dita contro il vetro della porta.
 
Fu un gioco, immagino, tornare indietro.
Anna fa sempre Anna da qualunque lato
lo si legga. Le vicine ripiegarono le orecchie
in un fazzoletto che le conservò per l’inverno.
Lei, la si incontrava a volte al minimarket:
torva, i gomiti in fuori, non parlava a nessuno.
 
(La giovinezza,
spiegavano nei cortili,
gli anni dolci e i lunghi
dopo, chiusa
li aveva passati
in manicomio).
 
 
*
 
 
Giuseppe (è lui che parla):
           
Compagno della tua timidezza, potevamo dirci
due carte da gioco appoggiate l’una all’altra
per non cadere e per lungo tempo quando più non ci si pensa,
per l’obbedienza
a un’idea o ricatto dell’ignoto, non siamo caduti.
 
Come fu che le due carte
abbattute
ritornarono nel mazzo e un altro
gioco
mescolò i destini
 
 
*
 
 
Roberto, hai il mento
poggiato al palmo della mano,
i capelli neri scarruffati,
il viso bianco di una bellezza
femminea, l’espressione
distaccata: e non parli.
Mi guardi così
come ti avrò visto
in una foto scolastica,
un antinoo provocante,
in posa, la maglietta scollata
che mostra un po’ la spalla, ma non parli: tu
e i tuoi giochi complicati!
dama e scacchi e il modo
di darti
a spicchi irresistibili.
 
È strano pensare a come poi
fu facile slegarci da te attuffandoti
la testa in acqua
a liberare nel fiume bolle col fiato.
Ti si ritrovò dopo anni
in un pub più a valle
l’annegato con esili storie
di esclusione nei suoi cocktail
nelle grazie di nessun adriano.
 
Sputi schiuma bianca, infine,
ti sbavi il mento e il collo,
ti rimane un filo di alga
incastrato a un dente
e sabbia sotto le unghie.

 
 
*
 
 
Un giorno
lo traccio e mi ci chiudo dentro.
Un cerchio. Che via via si restringe.
Da tempo so che mi proteggo,
escludendo. E continuo da anni.
Concepisco l’esclusività come forza.
                                               Errore:
il cerchio si restringe ancora.
A starci sono davvero in pochi.
A starci, si diventa pochi.
I pochi che hanno varcato la linea.
Quei pochi finiscono per uscirne.
Cacciati. Defilatisi. Scomparsi.
E continua da anni. Il cerchio
ora chiude solo me.
 
Certe volte, l’allargo un po’. Tu                                per Vincenzo Galvagno
 
vieni, non ti siedi neanche, la striscia di gesso                     
si arrossa, frigge: si premurano nuvoloni
di creta, una capra nera attraversa la strada,
in mezzo agli alberi sale un fischio di treno,
cala a giugno sui Nèbrodi la nebbia.  
 
Ma poi te ne vai.
Lasci sete e sazietà e te ne vai.
Acceleri il sangue, e poi
ti fai dimenticare. Fai
questo. Un bene. Da tanta
traversata reduci, mi dici:
(e ti vedo passarti l’indice sotto al naso)
«Già da allora sapevo
che saremmo rimasti noi due».
 
 
*
 
 
Il pomeriggio scuriva dietro i vetri,
un giorno di natale di sicuro da ricordare
anni dopo, un dettaglio minimo,
al momento invisibile o muto:
il mio fiato che sa di birra sul tuo braccio,
il soprassalto all’udire il citofono, la disponibilità
al pianto, forse, o le voci dei bambini
giù in strada, fastidiosi per te, per me
distensivi, o infine, mescolatesi
memoria e caligine, solo un pomeriggio
come altri (Magari natale
no, ma domenica era domenica, mi pare;
e lasciami pensare: faceva un freddo,
avevo le orecchie congelate e tu
mi voltasti le spalle, per gioco, e ridemmo
per qualcosa che dissi di buffo),
un pomeriggio lento a incupirsi
che schiariti adesso ci nascondeva
sotto le coperte nel mezzosonno terrestre
appena prima che tutto, da me
e da te, avesse inizio.
 
 
*
 
 
Tornando da Etnapolis dove prima  
mai la morte avevo colto che ride
aggirarsi in così mosse visioni,
(saltellare da un carrello
ad un altro, scancellare facce preda
di orgasmini a poco prezzo,
acquattarsi agli angoli di compiacenti
specchi in camerini stretti come bare
verticali o, ancora, camuffarsi
nel bacio che disperato o no riempie
tempo e attesa su scale poco mobili)
volgo il pensiero all’imprevisto:
un mezzo pesante che sbanda e dritto
corre a macinarci ossa e lamiere.
Ma mi aggrappo alla carne della tua coscia,
e nel buio dell’abitacolo ti chiamo
vita! tirandoti via da vuoti cui
a volte, in segreto,
anche tu ti affacci, forse.
 
Così riconduco a casa
stanchi provati felici
i miei nervi.
 
 
*
 
 
…ma se fino a due minuti fa entrava
luce sufficiente dalle persiane spalancate:
dobbiamo ancora conoscerla, questa stanza,
questa come le altre della casa, apprendere
i ritmi con cui si prestano al giorno
o si ritraggono, il fitto dialogo con l’esterno.
 
Ci siamo aggirati per casa silenziosa e futura
un’ora ragionando per visioni
valutando indicando
quella che dai muri per noi ancora dovrà fiorire;
e il tempo si mescolava, non volendo
cedevano le tre vecchie mensole, la sabbia per terra allucinava:
 
svelta, mi vedo dire, presto che è già buio.
Chiama i ragazzi, mi sento dire dissimulando ansia
sul balcone, dove si sono cacciati i ragazzi:
le piastrelle della cucina sono umide di condensa
e la cena sarà pronta a momenti; chiamali dunque
e di’ di affrettarsi, di abbandonare il pallone
o le ultime più lunghe chiacchierate, di’ che io li chiamo:
e già che ci sei, chiama anche me ragazzo,
richiamami dai pomeriggi corti dell’inverno trascinati
di strada in strada, di gioco in gioco…
 
Ma la cucina non c’è ancora in questa stanza;
l’odore di minestrone, i fornelli accesi, l’umido
sulle piastrelle, gli occhi che si fanno via via più intensi
li ho solo immaginati,
e non ci sono figli di cui preoccuparsi
e sul pavimento corrono ancora visibili
i tubi del metano, e c’è una carriola, una pala,
non c’è neanche la luce elettrica
e non di minestrone ma di polvere le narici
sono piene ad ogni respiro.
 
Mio nonno, ti vedo ripetere, mio nonno è qui
nella stanza vuota che fu appena un anno fa
la sua camera da letto, il suo letto di morte.
Mio nonno, sento che dici, ripete la sua domanda
preferita: “Dov’è che vado?”, lo vedi dentro il riquadro
del forno che alza la testa, ti riconosce, si scusa
e sorride, il sorriso identico di tuo padre, l’educato
sorriso di entrambi. Poi si alza. Smarrito
ripara dentro uno sportello, che richiude.
Richiamami, dici, dai miei giorni di bambina,
dalle magiche scatole di biancheria accatastate…
 
Il buio riempie. Non si vede più nulla nella stanza.
Moltiplicate prima nelle tue, anche le mie fantasie
ora si acquietano. Chiudiamo le persiane
da cui è entrata luce sufficiente
fino a poco fa, nell’aria le voci indefinite
dei vicini – anche queste bisognerà conoscere –
e io incerto, sereno, qui,
a tagliare
un limite.

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