Bartolo Cattafi. “Tutte le poesie” a cura di Diego Bertelli, Le Lettere.

«Tra cosa e cosa / due righe buttate là sulla pagina / ma chi si prende la briga / di passarci su il dito / di farsi morsicare da due aspidi / nell’estate pietrosa?». Abbiamo scelto Due righe, versi calzanti, per segnalarvi l’opera Tutte le poesie di Bartolo Cattafi, pubblicata, a cura di Diego Bertelli, dalle raffinate edizioni Le Lettere. Bartolo Cattafi (Barcellona Pozzo di Gotto, 1922 – Milano, 1979) esordisce in poesia nel 1951 con la plaquette “Nel centro della mano”. Seguiranno: “Partenza da Greenwich”, “Le mosche del meriggio”, “L’osso, l’anima” (1964), uno dei libri più belli, più “pesanti”, di quegli anni, scrive Raboni, raccolta in cui confluiscono anche le poesie di “Qualcosa di preciso”. E, ancora, dopo un decennio, dal 1972 al 1986: “L’aria secca del fuoco”, “La discesa al trono”, “Marzo e le sue idi”, “L’allodola ottobrina”, “Chiromanzia d’inverno”, fino a “Segni”. Lo straordinario volume, curatissimo, accoglie l’intera opera cattafiana animata, come osserva Raoul Bruni nell’introduzione, «dal contrasto tra polarità opposte: precisione e vaghezza; ansia di defi¬nizione e indeterminatezza; luce e oscurità». Cattafi abita «con rara profondità di sguardo il mondo circostante», incede facendo «emergere la nuda essenza delle cose» e, ancora Bruni, rimane «fedele a sé stesso anche per quanto ri¬guarda la sua idea di poesia come aderenza alla biologia, come pura espressione dei meccanismi vitali». Una storia incorruttibile che combacia con quell’unico “modo” di stare al mondo. E del resto, come affermato dallo stesso Cattafi: «La storia dei miei versi non può che coincidere con la mia storia umana. Rifiuto e considero vietate le fredde determinazioni dell’intelligenza, le esercitazioni (sia pure civilissime), le sperimentazioni che furbescamente o ingenuamente tentano l’impossibile colpo di dadi. Non mi riesce di capire il “mestiere” di poeta, i ferri, il laboratorio di questo “mestiere”. Quella del poeta è per me una pura e semplice con¬dizione umana, la poesia appartiene alla nostra più intima biologia, con¬diziona e sviluppa il nostro destino, è un modo come un altro di essere uomini». Tutte le poesie ha richiesto un lavoro capillare, decennale, partito «dallo zero» per fornire un esclusivo strumento di studio. «Il risultato – dichiara Bertelli -, è questo volume che riunisce per la prima volta tutta la produzione di Cattafi pubblicata in vita e dopo la morte. Tutti i libri d’artista e le preziose plaquette cattafiane sono state anch’esse recuperate, vagliate, stampando testi che facevano parte di edizioni fuori commercio, come nel caso di “Lame” e “Se i cavalli non fossero cavalli”. Abbiamo recuperato anche le poesie disperse su riviste letterarie, antologie, quotidiani e periodici di vario genere, uscite a partire dagli anni Quaranta fino alla fine dei Settanta. Il merito dell’editore è stato quello di accettare la sfida di un volume in cui si raccogliesse davvero l’insieme della produzione di Cattafi dai suoi esordi, ben “oltre l’omega”, citando una poesia celebre di “Segni”».

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(dall’introduzione di Raoul Bruni, omesse le note)

Il clima di rinnovata attenzione nei riguardi di Cattafi è testimoniato anche dal crescente numero di poeti delle ultime generazioni che si sono mostrati sensibili al suo magistero, riservandogli, come ha scritto Andrea Cortellessa, un «culto sottile, ma insistente».
Tuttavia questi segnali non sono stati sufficienti a far scoccare l’ora topica di un poeta sovrastato dai colossi della sua generazione, come Pasolini e Zanzotto, accolti già da molto tempo nelle cerchie più alte del canone novecentesco. Ma da cosa dipende l’ostracismo letterario nei confronti di Cattafi? Paolo Maccari, nella sua monografia, lo ha ricollegato innanzitutto alla riluttanza ai compromessi e alla scarsa capacità autopromozionale: «Nessuna collaborazione editoriale, nessuna prefazione a libri importanti dei colleghi, nessuna traduzione», mentre l’«incipiente attività giornalistica ha avuto esigua durata e sporadica attuazione». D’altra parte è anche vero che a Cattafi non mancarono riconoscimenti precoci: l’inclusione nella storica antologia di Luciano Erba e Piero Chiara Quarta generazione (1954); l’approdo alla grande editoria già a partire dalla prima raccolta compiuta (Le mosche del meriggio, edita da Mondadori nel 1958); la stima incondizionata di alcuni dei maggiori poeti e critici del secolo scorso (da Vittorio Sereni a Giovanni Raboni, da Carlo Bo a Luigi Baldacci). Inoltre Cattafi aveva solidi e importanti contatti in ambito culturale e editoriale: Luciano Foà, Marco Forti, Erich Linder, Sergio Solmi, per citare soltanto alcuni nomi, erano amici personali di Bartolo. Il suo isolamento, al contrario di ciò che alcuni hanno suggerito, non è tanto (o soltanto) un isolamento umano o culturale: scaturisce semmai da un profondo senso di estraneità alle idee dominanti della sua epoca.
Cattafi eluse ogni engagement politico-ideologico, opponendosi al culto delle magnifiche sorti e progressive tanto diffuso nel mondo intellettuale italiano degli anni Sessanta-Settanta. Inoltre, la poetica di Cattafi si distingue anche per una radicale estraneità alle grandi tendenze della modernità e della contemporaneità letteraria. Se, a partire dal Romanticismo, i poeti affiancano sempre più spesso alle loro opere creative una teoresi, un’autoriflessione esplicita, Cattafi centellina al massimo le proprie dichiarazioni di poetica, tanto che anche dalle rare interviste concesse ben poco si ricava sulla genesi delle sue opere. Manca in Cattafi ogni posa intellettualistica che proponga o cerchi un avallo alla sua prassi poetica. Egli rifiuta con nettezza il mandato sociale e culturale di cui allora i poeti erano considerati i depositari. Sereni, che fu uno dei suoi amici più stretti, scrive parole molto illuminanti su questo punto: «Voglio dire anzitutto che non vedevo in lui alcun segno di dubbia professionalità del qualificarsi socialmente in quanto poeta, nessuna istanza in direzione di quello che è stato detto il partito e che oggi sempre di più si caratterizza come la corporazione dei poeti». Anche un altro grande lettore di Cattafi, Giorgio Caproni, fece un’osservazione non troppo diversa recensendo L’osso, l’anima: «Se il lettore d’oggi si è allontanato tanto dai libri di ‘poesia’, forse e anzi senza forse è proprio e soltanto perché oggi come sempre il lettore vuole leggere uomini e non dottori di poesia […]. / In Cattafi senti sempre lontano un miglio che ti trovi di fronte a un uomo prima che a un letterato […]». Al contrario dei letterati contemporanei, infatti, Cattafi si astiene da ogni forma di autocommento e l’unica vera costante delle sue poche (e perlopiù implicite) affermazioni di poetica consiste nell’associare la propria creatività all’ispirazione: una nozione inattuale, fortemente ridimensionata, se non ridicolizzata, dalla cultura contemporanea.
Rileggiamo le affermazioni che Cattafi affida all’antologia di Giacinto Spagnoletti, Poesia italiana contemporanea, citate spesso ma non sempre adeguatamente comprese e commentate:
La storia dei miei versi non può che coincidere con la mia storia umana. Rifiuto e considero vietate le fredde determinazioni dell’intelligenza, le esercitazioni (sia pure civilissime), le sperimentazioni che furbescamente o ingenuamente tentano l’impossibile colpo di dadi.
Non mi riesce di capire il “mestiere” di poeta, i ferri, il laboratorio di questo “mestiere”. Quella del poeta è per me una pura e semplice condizione umana, la poesia appartiene alla nostra più intima biologia, condiziona e sviluppa il nostro destino, è un modo come un altro di essere uomini.
In queste dichiarazioni c’è una pars destruens, che ha come obiettivo polemico da un lato l’idea della poesia come professione, come mestiere letterario, dall’altro lo sperimentalismo esibito (come quello dei poeti della neoavanguardia); e c’è una pars construens che propone un’idea di poesia come «condizione umana», come obbedienza a una fatale vocazione.
A uno sguardo attento, le dichiarazioni di Cattafi si rivelano ben più profonde e intrise di riferimenti letterari di quanto potrebbe sembrare. Non ci sono solo le citazioni esplicite del coup de dés di Mallarmé, e di Apollinaire (nominato nell’ultimo paragrafo del testo), ma anche richiami nascosti (eppure non certo inconsapevoli) all’antica idea platonica dell’ispirazione come enthousiasmòs:
Cominciai a scrivere versi non so come, ero sempre in preda a non so quale ebbrezza, stordito da sensazioni troppo acute, troppo dolci. Le mille cose che quella snervante primavera mi proponeva erano magicamente gravide di significati, ricche di acutissime, deliziose radiazioni. Come in una seconda infanzia, cominciai a enumerare le cose amate, a compitare in versi un ingenuo inventario del mondo.
Oltre al richiamo alla fenomenologia poetica dello Ione platonico, nella definizione di poesia come «seconda infanzia» si può cogliere anche l’eco di una certa concezione estetica e filosofica basata sul parallelismo tra il poeta e il fanciullo, che affiora, tra gli altri, in Schopenhauer, in certi romantici europei, in Leopardi, Baudelaire e naturalmente nel Pascoli del Fanciullino.

 

otto poesie da “Bartolo Cattafi. Tutte le poesie” a cura di Diego Bertelli, Le Lettere, 2019.

 

GLI ANGELI INGORDI

Dal cielo del tramonto viene a riva
un vento chiaro che invetra la rena.
Dondola e scende al largo sul confine
una grande lanterna, il sole luttuoso
con le campane reiterate di ogni naufragio.
I morti naufraghi si tengono sul cuore
un mollusco o una conchiglia,
hanno gli occhi bendati d’azzurro,
gli angeli sono questi
questi uccelli bianchi infurianti
con l’occhio freddo feroce, il becco stridente,
che straziano e urlano ai vecchi relitti
alla flotta dei naufraghi morti.

Essi hanno perduto una rotta felice
non vedranno il celeste Arcipelago
e la grande lanterna, questo sole fumoso,
darà l’oro domani alle ali
degli angeli ingordi.

TACITURNI VIANDANTI

Chi discende stridendo tra la pioggia
sui pali in fila d’un triste telegrafo?
Nella cieca città l’erba maligna
avanza verde fuoco velenoso,
tornano taciturni viandanti
a tastare la crescita dei figli
e riaprono il sesso delle mogli
come un fagotto invecchiato.
Spiraglio d’oltretomba è nelle porte
oggi opaco, gradino ammuffito
fiore fetido colore di domani
anni morti tra muri senza età.
Chi trascina le vittime stanche
dondolanti lanterne disattente
nel fumo d’un saccheggio silenzioso?

Da qui non passano azzurre correnti
nessuno assalta vulcani e icebergs.
Vagabondi lontani sempre strappano
tutto il tenero sangue abbarbicato,
sempre risplende sui lunghi meridiani
la fresca flotta, i liberi merluzzi
i marinai dal cuore tatuato.

ASTRO

Astro, amore, altissima arancia,
su mappe azzurre viaggiano le mani
d’un popolo piagato che ti cerca
tiranno, uccello, biondissimo emblema
pietra impetuosa, dominio che sbiadisci
i mari, le foreste, i nostri occhi.

Nel deserto dell’Est e nell’Ovest sfiorito
le torri alzano il fumo
di navi seppellite,
sono la patria stridula d’uccelli e di lanterne.
Ai loro piedi è morto l’azzurro dei viaggi
mutato in gelo di cristalli, in crudo
silenzio minerale.
Là è l’immobile popolo, il tuo branco
perduto che richiama
con gridi bianchi di sale nelle gole.

Se alla mente t’unisci come un cancro
e ci uccidi i pensieri
Cristo la fiamma crèpita nell’olio
Cristo la spiga assorbe il tuo colore.

L’AGAVE

Abbandona la sabbia siciliana, la musica ed il miele
degli Arabi e dei Greci,
rompi i dolci legami, questo torpido
latte delle radiche,
discendi in mare regina sonnolenta
verde bestia con braccia di dolore
come chi è pronto al varco; nelle grandi
città, nelle nevi, nel bosco, nel deserto
carovane camminano in eterno;
viaggia assieme all’anima
fredda dei gabbiani
assieme al cuore fecondo al pesce pregno
che arricchisce la rete più lontana
e la mano lentissima di Dio
venuta in volo da un nido di nebbia.

ANTRACITE

Fabbriche e treni perdono lucore,
invecchiano, sbiadiscono col tempo,
sconfinano nel bigio della nebbia.
L’antracite perdura, abbasso, nera,
fragile, dura, riflessi di metallo,
terra chiusa e remota
a lumi spenti.
Ne intendo i segni, i cippi calcinati del confine,
l’ala del fossile confitta sulla costa
le mani rattrappite dei compagni
naufraghi morti nel golfo senza mare.
Può darsi avvenga domani un altro rogo
non l’aperta l’allegra combustione
che macchia l’aria di fumo e d’amaranto,
la soffocante perdita dell’anima
noi incastrati nell’ombra.

Penso alla pioggia, alla cenere, al silenzio
che l’uragano lascia amalgamati
nella vergine lapide di melma
dove drappelli d’uomini e di bestie
verranno ancora a imprimere
un transito nel mondo,
all’alba ignari sul nero
cuore del mondo.

DI TE

Fuori di mano,
raggiungibile solo se fortuna
ti assiste.
Allora un vento propizio è alla tua vela,
con salute e saggezza prendi il mare.
Al di là di montagne, di barriere,
di approdi allestiti per l’inganno,
di specchietti, d’allodole, di te.
Di te stesso, del tuo
ignorare e sapere, della tua
testa, dei piedi,
dei frusti pensieri.

CASSETTA DELLE LETTERE

Nessuna notizia
né buona né cattiva
è soltanto vuota
il vento vi s’ingolfa
vorticando con polvere, con foglie.
Spirando da quella direzione
quando fu di passaggio in quella zona
assunse voci e rumori
ti sentì clandestina in qualche luogo
imbarcata in faccende poco chiare
a volo controllò alcune cose
scosse una lampada
ti buttò luce in faccia
faccia intensa
intenta a speciali contrazioni.
Ora con me adotta
un logoro linguaggio:
polvere per esempio,
foglie secche.

RABBIA DELL’UOMO

Non c’è né grande luce né luce intisichita
come il filo di biada lasciato,
ma il velo fermo dell’aria insquarciabile,
e l’intatta, gelida rabbia dell’uomo
che si sgancia ridendo a segarsi la vita.
L’attimo cercato, scavato
coi denti e le unghie,
una natura (nuvola pianta zolla) ghermita
ferita stuprata sputata
dall’uomo sfrontato;
uomo che insulta e mostra ferite.
Lui si appaga all’immenso fragore dello schianto,
con gli occhi aperti da un odio fermato.

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