#1Libroin5W
CHI?
Il protagonista assoluto di questo epistolario, che esce riveduto e corretto negli Oscar Cult di Mondadori dopo i trentuno anni che sono passati dalla prima edizioni apparsa da Einaudi, è Italo Calvino, di cui l’anno prossimo ricorre il centenario della nascita. Calvino è stato costantemente uno sperimentatore, ha attraversato i mutamenti culturali con grande lucidità e ha esplorato mondi e settori diversi con lo sguardo vertiginoso del falco pellegrino. Si è profondamente smarcato dalla neoavanguardia in virtù di quella che è stata – su una linea che già Pavese pretendeva per sé – della “ricerca di uno stile”, ha ambito alla classicità, mai interpretata come immobilità atemporale, ma come immersione nelle cose e nella scrittura che alle cose dà vita e verità. Senza mai risultare enfatico ha seguito la sua stella variabile mantenendosi al largo da combriccole e camarille letterarie. Ha insegnato – senza fare mai il professore e tanto meno il moralista – la profonda moralità di una vocazione. Se ne possono discutere certi esiti, ma di certo la morale che si può ben trarre da una delle sue opere più geometriche e insieme combinatorie, Le città invisibili, laddove Marco Polo afferma: “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Lezione onesta tanto di letteratura quanto di vita. Tanto più protagonista qui, dove, insieme con i libri propri, si dedica ai “libri degli altri”, di chi si rivolgeva alla casa editrice Einaudi per trovare l’ambita pubblicazione.
COSA?
I temi dell’epistolario sono i più diversi, ed è abbastanza superfluo farne l’eventuale elenco. Certo le linee fondamentali sono due: i “libri degli altri” che intrecciano di continuo i libri propri. Corrispondenti che vengono accolti e altri che vengono esclusi. Rapporti tenuti sul filo di una cordialità che a volte si fa asprigna e a volte persino aspra. Calvino è un critico esigente e per nulla tenero, non ama la chiacchiera e si dichiara legato alle esigenze di un fare e di un misurarsi conradiano nella sua officina editoriale. Non esita a esprimere diffidenze, sa usare bene l’arma dell’ironia e non fa mistero del peso che qualche volta è costretto a portare. Di fatto nella scelta io ho cercato di tenere conto della varietà del materiale e non ho a mia volta esitato ad accogliere anche lettere che sembrerebbero lì per lì inutili, se non fosse che sono lì giusto per narrare la fatica che spesso l’attività editoriale comporta.
QUANDO?
All’inizio del 1991 fui chiamato da Guido Davico Bonino per curare un primo “assaggio” dell’epistolario da scegliere entro un ben più ampio corpus di lettere scritte da Calvino nell’ambito del suo lavoro presso la casa editrice. Carla Sacchi ne aveva fatto la scrupolosa recensio e io mi sarei dovuto occupare della scelta e dell’annotazione secondo le istruzioni – di tempi e condizioni – che Davico mi diede. Tempi decisamente stretti e annotazione che altro non fosse se non un aiuto a chiarire – di ogni lettera – i contesti, fornendo fin dove possibile la documentazione di un clima di dialogo che – a volte più guardingo a volte più convinto – Calvino intratteneva con i suoi corrispondenti. Un dialogo per lo più ma non esclusivamente editoriale, che almeno in parte coinvolgeva l’officina e i retroscena delle sue stesse opere. Lavorai per qualche mese in via Biancamano in una stanzetta al piano rialzato, davanti alla quale vedevo spesso passare Roberto Cerati, che di tanto in tanto si affacciava per piccole e incoraggianti conversazioni. Le intenzioni della casa editrice erano più ambiziose e non si sarebbero dovute fermare a quel primo volume, come invece poi accadde. Avrei dovuto provvedere subito a una scelta di ragionevole ma empirica quantità, a cui sarebbe dovuta seguire in un secondo momento un’edizione intermedia e infine un’edizione integrale: disegno di cui solo la prima anta vide la luce nell’autunno dello stesso 1991 con il titolo I libri degli altri, che fu la vedova di Calvino, Esther Singer detta Chichita, a suggerire attingendo da un’intervista del 1979 che Calvino rilasciò a Marco d’Eramo per “Mondoperaio” e che venne collocata in esergo.
DOVE?
Trecentootto lettere scelte tra le quasi cinquemila giacenti negli archivi dell’Einaudi, a Torino per la maggior parte e a Roma in misura assai più modesta. Lettere scelte secondo un criterio che mi diedi dopo avere letto l’intero corpus. Si trattò, infatti, di rispettare la varietà delle risposte di Calvino alle lettere che gli giungevano in casa editrice: non tutte legate a ragioni di natura strettamente editoriale. In altre parole, lettere che potevano essere legate tanto alle proposte di pubblicazione o a questioni inerenti a progetti della casa editrice quanto alle opere cui lo stesso Calvino stava lavorando o pubblicava di suo, coinvolgendo valutazioni di poetica, personali perplessità, scrupoli o intermittenze di scrittore in proprio. Si trattò anche di dare conto – in proporzione – sia di autori già noti o destinati a esserlo, sia di autori ignoti o allora quasi ignoti o noti solo in ambienti settoriali, spesso legati alla militanza politica del Pci, che potevano ben vedere nell’impegno politico dell’Einaudi una sorta di naturale sbocco, e individuare in Calvino – già redattore dell’“Unità” torinese – un congeniale destinatario. Nel lavoro di selezione si trattò, insomma, di rispettare, in una misura sia pure pragmatica, la varietà di un epistolario la cui unità era costituita dalla tutt’altro che univoca personalità di Calvino: un Calvino per nulla disposto a indulgenze e concessioni, rigoroso e rigorista con gli altri e con se stesso o con gli altri proprio perché prima lo era con se stesso.
PERCHÉ?
Sarebbe facile rispondere: perché Calvino è Calvino, uno degli scrittori più sorprendenti del Novecento, del secondo Novecento. E poi perché Calvino è stato – sulla scia di Pavese – l’ultimo che abbia incarnato “un certo modo” di fare i libri. Sarebbe diminutivo parlare di lui come di un “editor”. Calvino fu molto di più che – come si dice oggi – un editor. Fu l’interprete di una cultura letteraria che tentava strade diversificate e complesse. Fu quello “scoiattolo della penna” che trovavi sempre da qualche altra parte, ma che anche sapeva stare rimpiattato sul suo albero in attesa. Proprio come Cosimo Piovasco di Rondò. I suoi rapporti non sono tutti pacifici, e dalle lettere le idiosincrasie trapelano. Ma la coerenza e la franchezza non gli mancano. Così come non gli manca la favolosa umiltà di spendersi in più pagine per insegnare qualcosa di serio a chi era propenso a smarrirsi nelle nebbie o dell’ideologia o della sua stessa scrittura.
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