#1Libroin5W.: Elisa Audino, “Orata in offerta”, Capponi Editore.

CHI?

La protagonista è Martina, commessa al banco del pesce di un supermercato di provincia e rappresentante sindacale. Martina è una sorta di eroina dei nostri tempi, disillusa ma allo stesso tempo ferma nel suo agire che sa essere frutto di disumani sforzi contro i muri di gomma della produzione globale e del consumo locale e però privo di effetti. È anche una femminista di ritorno – come l’ha definita Isabella Liguori nella sua postfazione -, figlia di una provincia toccata solo lateralmente dalle grandi battaglie degli anni Settanta, cresciuta con scarsa consapevolezza, quasi fortuitamente libera nell’approcciarsi al corpo, al sesso, al suo essere madre, moglie e amante, ma carica di domande che ha scoperto forse troppo tardi di dover porre. A fare da spalla a Martina si muovono Sara, l’amica che come lei arriva dalla provincia e si è trasferita a Dacca, Alessandro, amore giovanile che ora vive a Bruxelles e che incontrerà dopo anni, e una serie di sagome che interrompono Martina con brevi dialoghi e richieste.

COSA?

Produzione globale, delocalizzazione, consumo vorace, lavoro a scadenza si intrecciano con un proletariato per lo più femminile, impiegato nella grande distribuzione, a cui viene richiesto di essere flessibile e funzionale, quasi quanto un corpo durante un amplesso, ma senza poterne godere del relativo piacere. Il corpo è – metaforicamente e non – sempre presente, nei suoi diversi organi: lo stomaco, su cui il consumo dei prodotti spazzatura e dei tre per due fa leva incessante stimolandone appetiti e viscere, la testa, che deve smettere di farsi domande e deve rinunciare all’illogicità di una certa organizzazione del lavoro, le orecchie, che ascoltano il suono delle mascelle, della rabbia e dei piedi che calpestano i pavimenti dell’ipermercato e i marciapiedi del quartiere rosso di Bruxelles – prodotti e corpi in vendita -, così come quello delle consonanti prive di vocali di Dacca, nuova capitale mondiale della produzione globale, le mani, che accolgono la fragilità, e gli organi del piacere, che in qualche modo ci avvicinano alla nostra tensione più finita e umana.

QUANDO?

Il mondo della grande distribuzione è tratto da un focus group che avevo organizzato, grazie alla Casa delle Donne di Torino – Carla Quaglino, in particolare – e alla Filcams di Torino con alcune dipendenti di grosse catene commerciali, tra cui Isabella Liguori, che ha poi curato la postfazione e che all’epoca era in distacco sindacale. Avevo tutte le voci di queste donne in mente, tutte laureate, alcune madri, tutte rimaste incastrate in quel sistema lavorativo fatto di scarsa lucidità organizzativa, di studenti che vogliono lavorare il pomeriggio e vengono fatti lavorare il mattino, genitori che vogliono essere collocati nei turni del mattino e vengono posizionati in quelli del pomeriggio, quasi tutti con part-time imposti. E insieme avevo il mondo delle merci e della globalizzazione, che precede il canale finale della vendita al pubblico, e che conosco bene perché ci lavoro e ne sono attratta. Una sorta di Babele, che l’anno scorso ha finito per incagliarsi simbolicamente e non nel mar Rosso, con la Ever Given, una delle più grandi navi portacontainer al mondo, fermata da una tempesta di sabbia, con equipaggio indiano, bandiera panamense, un rimorchiatore del nome evocativo Carlo Magno, quattrocento altrettanti navi in coda e, infine, un altrettanto evocativo periodo di fermo sulle sponde del lago Amaro. Sorrido sempre pensando agli ebrei che, passato il Mar Rosso, si erano fermati in un oasi le cui acque erano così amare da essere da loro ribattezzata Mara. Potente.

Ecco, da questo mio mondo, è nata una sorta di affresco del consumo, in cui i luoghi sono essi stessi protagonisti, ma in cui però ho dovuto abbandonare ogni volontà didascalica e lasciarmi trascinare dalla storia e da una certa compiaciuta nostalgia per la flessibilità delle distanze.

DOVE?

Da quel focus group non è nata subito la storia. È rimasto lì a girarmi nella testa, finché un giorno attraversando una festa di paese ho notato una coppia di ragazzi. Quella è stata l’immagine iniziale: due giovani corpi (‘mentre sul porticato sono rimaste due ombre di corpi poco maturi, che se avessero più vigore potrebbero sfruttare quel vuoto e tentare di colmarlo. Potrebbero trascorrere le giornate a fare l’amore.’), una donna che torna a casa da sola dopo il lavoro – sebbene io non fossi assolutamente sola in quel momento e fossi in vacanza – e attorno a sé scorge le luci di una festa. Andando avanti con la revisione, l’inizio della storia è stato poi anticipato da una sorta di cinepresa in discesa, uno zoom su una macchina che percorre la provinciale di Fossano, magazzini dismessi e cubi di cemento a fianco e le Alpi Marittime sullo sfondo, per poi sbagliare incrocio e finire per fermarsi ad attendere una telefonata in un bar semi deserto, con il suono delle slot machines sullo sfondo.

PERCHÉ?

È vero che il testo è percorso da alcune tematiche, ma credo di essere arrivata ad un punto saldo nel momento in cui ho smesso di voler scrivere con uno scopo preciso e ho seguito la linea degli eventi, privilegiando credo il mio lato lirico, il movimento delle azioni, le mani e i singoli personaggi. Cioè mi sono risolta a raccontare e a farmi trascinare dove non avrei pensato, risultando a tratti anche antipatica a me stessa, tanto che oggi fatico a leggermi. Orata in offerta è il romanzo delle attese, ogni personaggio attende sempre qualcosa, Martina attende lo sciopero, attende una telefonata, attende Alessandro, ma è a volte un’attesa colma di dolcezza e di calore.

Elisa Audino, Orata in offerta, Capponi Editore, 2022

scelti per voi

 

Incipit

Le attese sono invisibili momenti di stallo, sono l’ammasso dei mattoni d’un cantiere, il casello dell’autostrada, il cavalcavia crollato sul posto di blocco dei carabinieri, i capannoni in affitto a nessuno e l’ospedale barocco appollaiato sui bastioni della città vecchia. Oltre le mura, le attese sono gli avvallamenti dello Stura, i bar dei condomini degli anni Settanta, gli ombrelloni dentro i pesi di plastica, l’intermittenza delle luci e la stazione, col binario unico che porta a Torino oppure al mare.

La biglietteria è chiusa. La periferia prende avvio dalle arterie di rame e si dilata in disordine. Un muro di cemento ne delimita il lato est lasciando intuire la presenza d’un vecchio stabilimento, tenuto in piedi dalla vegetazione e dal traffico.

Di fronte, le viuzze in salita verso i salottini piemontesi e il decoroso silenzio dei portici, umidi di nebbia pungente d’inverno, deserti fino al tardo pomeriggio d’estate. Alle spalle i dormitori, la linea regolare delle finestre costruite per la manodopera delle campagne e gli ampi cortili.

Sono volate due generazioni da allora ed è rimasta una cittadina di poco conto, con gli artisti di strada a luglio, i marmi delle Casse Rurali accanto alle torri in laterizio, le torrefazioni e le cioccolaterie, dove la cortesia dei camerieri si appaia al garbo della fortezza medievale, al profilo delle Alpi Marittime e le pietre dell’antico borgo di pescatori diventato zona residenziale.

pag. 19

Martina è ferma al bancone, indecisa sul da farsi e in imbarazzo per la situazione. Per il fatto di essere sola a bere un bicchiere di vino in uno spazio privo di qualsiasi eleganza, che per giunta trasuda presenza maschile. I locali frequentati da uomini si assomigliano sempre quasi tutti: hanno un senso di solitudine che stenta a evaporare. Resta lì appiccicato a un gusto spoglio, ai fondi di Barbera e alle piastrelle economiche. Ci si sente osservati pure quando i clienti sono andati via, o sono appisolati su una pagina di giornale.

Finge allora una fermata involontaria, controlla distratta l’orologio, come se volesse far passare il tempo, e ordina un secondo bicchiere di vino. Bianco secco, ancora, nonostante il bluff del frizzantino di prima le sia fin troppo evidente.

«Ci saranno ancora le giostre, domani?» chiede, all’improvviso, alla donna dietro il bancone. «Ci vorrei portare i figli» aggiunge, schiarendo la gola.

pag. 30

Martina, Sara e le altre, la flessibilità l’avevano imparata a chiamare con il suo vero nome: culo. Devi darlo via, per poco, senza neanche goderne, senza chiedere «fai piano, che vengo anch’io.»

Tu vieni, io no. Tu mi fotti, senza devozione.

 pag. 49

Ceci n’est pas un urinoir, questo non è un orinatoio: l’avviso si ripeteva lungo il marciapiede che dal retro della gare du Nord costeggiava l’intera rue d’Aerschot.

L’ingresso della stazione si affacciava su una piazza ordinata, contornata da alberi e palazzi di vetro, ma l’uscita posteriore dava su decine di corpi seminudi.

Martina e Alessandro si divertivano ad attraversarne le porte di corsa. Centro finanziario da una parte e sesso in vetrina dall’altra: Bruxelles aveva imparato a disciplinare i propri difetti con attenzione quasi teutonica. I binari correvano paralleli al lato nascosto, più popoloso e meno costoso, con le donne disposte su vecchie poltrone in stile liberty.

 

Potrebbero interessarti