#1Libroin5W
Chi?
La protagonista del mio libro è una donna senza nome. Non ho compreso da subito la ragione per cui, lungo tutte le pagine, io non abbia avvertito la necessità di nominarla. I libri prima si scrivono e poi, quando se ne viene fuori, si prova a capirli. Questa storia è nata senza intenzione, senza uno scopo preciso (se mai può essercene uno, quando si racconta). È stato un fluire di necessità e quando ho alzato gli occhi credo di aver saputo che l’assenza di una definizione onomastica non accresceva l’indefinito, altresì definiva qualcosa di estremamente condivisibile – qualcosa che, con molto pudore, proverei a definire universale. In questa donna è molto facile trovare casa: rappresenta le nostre innumerevoli e diversissime mutilazioni; tutte le occasioni mancate e quindi perdute per sempre; tutti i rimpianti; ma anche tutta la forza che a un certo punto arriva, dando riparo all’incompiuto. Soprattutto sembra dirci quanto recinto siamo in grado di assecondare per ragioni che possono essere ambientali, familiari (prodotto di una metodica educazione), ma anche e soprattutto quanta parte provenga da noi: perché ci sono nodi (e sono quelli più stretti) in cui c’entrano le nostre mani. Lei stessa – a un certo punto – quando prova a comprendersi, si definisce una donna bonsai, un essere umano a cui è stato impedito di crescere, di svilupparsi. Eppure la verità non è tutta qui, perché vi è una certa complicità in questa piccolezza del vivere: accettare di essere ciò che gli altri hanno deciso per noi è più facile, il difficile è scegliere o pretendere di assumere liberamente la propria natura.
Cosa?
I temi affrontati sono molteplici, ma quelli più in rilievo credo che siano il peso che ha l’educazione nell’accantonare la nostra parte istintiva, il senso di deresponsabilizzazione che ne deriva, e poi il fardello che comporta ogni scelta, ogni affermazione che non venga percepita come corrispondente al buon senso condiviso. Una domanda che la mia donna bonsai si pone è questa: veniamo dalla natura oppure dalla costrizione? La risposta non è semplice e richiede un intenso lavoro di conoscenza del proprio essere profondo. Occorre spogliarsi dei limiti imposti e tollerati per arrivare a scoprire che la nostra verità ci abita con maggiore fermezza di quanto siamo disposti ad ammettere. Difatti, quella goccia di sangue ferino tenuta a freno con gli infiniti accorgimenti della paura, continua a scorrere nelle vene. E lo fa restando incurante rispetto a qualsiasi conciliazione esterna. Grazie a ciò la mia donna bonsai resta creatura viva, desiderante e col tempo impara ad accettare che non vi è bestialità nel bisogno di darsi o dare il piacere. Che immorali sono soltanto il dolore che assecondiamo e le scelte che manchiamo. Alla fine di tutto credo di aver raccontato un qualcosa che non comprendevo. Credo di aver voluto inconsapevolmente refertare la mia interiorità, per arrivare poi a scoprire che molto di quel privato che giudicavo eccezionale era invece molto comune.
Quando?
Questa storia ha avuto una lunga gestazione. Probabilmente è nata con la mia venuta al mondo: ho cominciato a scriverla dal primo vagito e poi sono andata avanti, a viverla senza aver mai avvertito il sospetto di poterla raccontare. La voce narrante è arrivata in un momento di grande spaesamento emotivo e solitudine. Tutto sembrava abbandonarmi. Non avevo storie, il respiro si spezzava senza arrivare fino in fondo, e il rigo vi si adattava: non sapeva come spingersi verso il margine della pagina e poi andare avanti a replicarsi. Ho scritto versi per tenermi strette le parole. In quel tempo di veglia continua e di allerta ho sentito il bisogno di comunicare con quella me stessa che, fino ad allora, non avevo saputo tenere accanto. Nei libri precedenti ero sempre stata altro (un uomo, una vecchia signora, un ragazzino), invece stavolta ciò che ero mi rincorreva, chiedeva di essere ascoltato. La fuga continua da me è diventata un ritorno a casa. Lì ho scoperto di avere ancora una voce e una storia da scrivere. Allora mi sono seduta e ho provato a riparare i miei cocci. Il tempo passato e il presente, il mio e quello della protagonista, si sono mescolati. Era lo stesso spazio di dolore, smarrimento, voglia di vivere. Ho lasciato che lei raccontasse anche per me.
Dove?
Il testo è nato nello spazio di vita che abito da sempre, e mi ha portato a scoprire che il quotidiano può diventare un generoso spazio di immaginazione, purché si smetta di innestarvi l’eccezionalità. “Tutto è cominciato prima di me”, dice la voce narrante all’inizio del mio romanzo, ed ha ragione, perché questa storia viene da lontano e sembra non avere fine. Rivivrà ogni volta che qualcosa o qualcuno verrà a mutilarci – magari con l’ingombrante scusa dell’amore.
Perché?
Dopo aver accolto i demoni del mondo, dovevo riconciliarmi, pacificarmi con loro. E la pace poteva venire solo dal racconto, che sa dare perdono, laddove il silenzio castiga. In questo libro ho evocato un buio innominabile che a un certo punto ha smesso di essere solo mio. Come dicevo, nella donna bonsai che racconto è molto facile ritrovarsi, perché ciascuno di noi ha i propri luoghi proibiti, ma anche un insopprimibile bisogno di tornare a essi. Ho voluto parlare a quella parte di noi poco accudita, a quella zona che tendiamo a trascurare applicando una vocazione al giudizio introiettata sin da bambini. Scrivere stavolta è stato provare a mettere il mondo in una noce, il tanto nel piccolo. Un’operazione bonsai, paradossalmente. E forse la poesia – che non ho dimenticato passando dal verso al rigo – mi ha insegnato proprio questo: che occorre essere minimalisti dell’immensità.
scelti per voi
pag. 38
Ho dovuto cercare e trovare molti padri e madri lungo la
mia via, a ogni angolo qualcuno mi ha chiesto di avanzare in
mille direzioni, le stesse da cui mia madre mi aveva mille volte
messo in guardia: non correre, non sudare, attenta ai gradini
di marmo quando piove; non mettere alla prova le tue ossa: si
spezzerebbero; non litigare: perderesti; non alzare la voce: comunque
ti ignorerebbero; non ribellarti: ti sottometteranno;
proteggiti e non fidarti o ti maltratteranno; resta nel solco, rimani
antica: ti giudicherebbero; non cambiare le scarpe comode:
ti affaticheresti; il mondo è sporco: non averci a che
fare; resta buona: nessuno potrà criticarti; la vita è qui, fuori è
l’inferno: tu non andare; sii perbene: conta più dell’essere felici;
non conoscere le strade di notte: ti smarriresti; usa le chiavi
e non dormire prima di aver fatto il giro delle porte; non dare
spago alla vergogna: la gente saprà; non rischiare: avresti la
peggio; non saltare: ti faresti male; non fare docce troppo fredde
e nemmeno troppo calde; non fare niente che sia troppo;
misura il passo: non te ne pentirai; non sprecare: risparmia per
l’avvenire; il godimento è superfluo (come tutto ciò che non
dura), allora non godere; troppa vita fa male, prendila in piccole
dosi, se riesci prendine il meno possibile: è una roba che
inquieta e tu non sapresti reggerla.
pag.82
Ero una donna bonsai: le mie radici legate con forza alla
ciotola che mi avrebbe tenuta fino al prossimo rinvaso. Ero
stata corretta e amorevolmente forzata a nutrirmi della scarsa
terra a disposizione, della poca acqua di cui necessitavo. Avrei
potuto essere forte, invece avevano studiato la mia debolezza:
sarebbe bastato un nulla – un sole troppo acceso, dell’acqua
poco calibrata oppure una concimazione irregolare – perché
morissi.
Andrea veniva a impedirlo rifiutando l’idea che andassi
avanti così. Lungo tutta la mia vita è stato il solo a immaginare
che avessi diritto anch’io alla normalità: che potessi crescere
ancora contro ogni speranza e a dispetto dei tagli subiti.
Non pensò mai che fosse tardi e le mie radici legate per
sempre. Laddove altri costruivano ostacoli ponendomi innanzi
all’idea del pericolo o della mia inadeguatezza, lui mi
parlava di coraggio e trasformazioni possibili. Giorno dopo
giorno mi dava acqua e luce, e io – pur temendo ogni volta di
annegare o di bruciare – bevevo, mi esponevo. Lo feci ogni
volta che andai da lui provando a dimenticare quel che ero.
Ma in fondo non dimenticavo mai e non importava quanto
poco sapessi di me.
Forse appartenevo al numero di quelle poche, rare persone
che hanno avuto la capacità di domare la propria natura
ancor prima di preoccuparsi di capire cosa e quale fosse.