#1Libroin5W.: Paola Silvia Dolci, “Diario del sonno”, Le Lettere.

#1Libroin5W

 

 

Chi?

“Nel 2005 persi il controllo degli impulsi, attacchi di panico e depressione si aggravarono ed ebbi bisogno di cure psichiatriche e psicoanalitiche. Questo documento è la mia analisi, la risposta alle domande del dottore. In seduta non riuscivo a parlare: tacevo, piangevo, mentivo, ricattavo, recriminavo, spaccavo tutto. Continuai solo a scrivere fino al febbraio 2007 quando iniziai a parlare. Ancora non riesco a leggere alcuni brani, questa è una piccola selezione di quattro milioni di battute suddivisi in sessanta cartelle. La struttura del lavoro è quella in cui sono affiorati i ricordi e include diverse lettere.”

Cosa?

Diario del sonno, edito da Le Lettere, casa editrice di Firenze, nella collana Novecento/ Duemila, diretta da Diego Bertelli e da Raoul Bruni, e con una postfazione di Marco Giovenale; l’immagine di copertina è del fotografo Manuel Scrima. Un diario del sonno: è un giornale di bordo che tiene traccia dello stato del sonno. Un diario, è uno strumento fondamentale per scoprire la falla nel sistema, grazie alla costante annotazione che la mette in evidenza. Ma questo è il diario di un percorso psicanalitico. È la storia di una malattia, e della sua evoluzione. Diario del sonno, dunque, perché contiene soprattutto sogni, incubi, racconti e lettere private. La struttura del libro è frammentaria. E ogni frammento può essere considerato una poesia in prosa. Ossia, un testo in prosa che viene ricevuto come poesia.

Quando?

La voce narrante va e viene tra passato e presente, tra eventi reali ed eventi sognati di una vita in cui è successo naturalmente di tutto: storie d’amore, madri, padri, fughe, avventure. A ogni pagina compare una datazione: ho un anno, ho 25 anni, ho zero anni, ho 1000 anni, ed è l’età che la protagonista associa ai ricordi che le saltano in mente in risposta alle domande dello psicoanalista. Ogni frammento contiene un sogno o un ricordo, o mescola sogno e ricordo. La prosa procede per appunti, nonostante la continuità del sistema.

Dove?

(Nella scrittura, nei nomi.) La scrittura è un passaggio attraverso la lingua, una testimonianza della coscienza. Per scrivere, ho sempre avuto bisogno di anonimato e di solitudine. Per questo motivo i primi quattro libri che ho pubblicato sono scritti da eteronimi, estensioni del mio carattere, momuk-ququ, NuàdeCoco, Amiral Bragueton e i sei eteronimi che si spartiscono le pagine del libro I processi di ingrandimento delle immagini. Fanno seguito un bestiario-metamorfosi, e un portolano, e poi questo diario del sonno in cui ho scelto di usare il mio nome perché fosse più efficace. (Poi, in settembre ho pubblicato un nuovo libro segreto, sotto pseudonimo.)

Perché?

Penso che la poesia debba incoraggiare il divenire umano e ho voluto pubblicare questo diario perché ho pensato che qualcun altro possa avere vissuto qualcosa di simile.

 

scelti per voi

 

Ho sette anni.

Siamo nello studio. Luci puntate e buio.
Con forza e fermezza il dottore mi strappa entrambi i lobi nei quali ho due grandi orecchini a cerchio. Mi scuoto, me ne andrei. Il dottore mi afferra gli avambracci e me li blocca sulla scrivania. Non posso muovermi. Senza fiato, ho paura.

Ho ventuno anni.

Mi commuovo quando hanno un orgasmo dentro di me. (Rapporti nel periodo mestruale).

Ho quindici anni.

«Io non sto bene e mi devo proteggere.
Ieri volevano trattenermi ancora in psichiatria.
T’informo non per spaventarti ma per farti capire che la situazione per me è grave.
Le frasi che ripeti con maggiore frequenza sono “esisto anch’io”, “anch’io ho i miei limiti”, così se commetti errori tu sono giustificati e se sbagliano gli altri, noi siamo malvagi.
Ti aspettavi sorrisi e abbracci al tuo ritorno, sbagliavi. Non condivido quello che è stato il tuo comportamento.

Sono due anni che tra alti e bassi cerco di farmi perdonare, cosa poi? Scegliere di avere una vita mia?»
Ho ventisette anni.

All’ingresso di via Ala Ponzone mi prende la paura, battito accelerato, bocca secca, mani e gambe che tremano. Se non mi accompagnasse qualcuno non entrerei.
Suono. Apre. Entro. Tolgo il cappotto, i guanti, gli occhiali da sole, mi siedo. Guardo alla parete Charcot e gli istogrammi degli internati nel manicomio di Cremona, humour noir, il dottore ce l’ha coi pazienti. Non posso fumare, i libri sono ordinati e non li sfoglio più. Ascolto, non si decifrano le parole ma i toni si distinguono bene. C’è questo ragazzo biondo e triste, ha un tono sommesso e un aspetto infelice, sembra rassegnato, mi fa tenerezza. La signora che l’ha preceduto un paio di volte nelle mie attese, lei rideva sonoramente, sembrava simpatica. La ragazza anoressica mi metteva tristezza, pareva arrabbiata.

Io sono astratta e non può vedermi nessuno.

Ho sedici anni, e nascondo quello che scrivo perché anche quelle sono tutte bugie. Non posso sostenere che le mie poesie vengano lette in pubblico.

Ho dodici anni.

Le pareti e i pavimenti intonacati sono tinteggiati di bianco polveroso e sulle superfici i dislivelli sono eccessivi. La casa è del Settecento e non ha mai subito ristrutturazioni, il pavimento scricchiola a ogni passo ed è necessario muoversi con molta cautela, ho il terrore che crolli tutto. Lo schema delle stanze si ripete su almeno tre piani, l’ambiente è luminoso.

Una di quelle stanze è lo studio del dottore, lo incontriamo, si accorge della nostra presenza ma se ne va. Indossa un completo blu, giacca, camicia bianca senza cravatta, forse è di fretta, sembra indaffarato, forse ci evita, io credo che ci eviti, capisco che mi evita. Lo seguiamo. L’ambiente si oscura, il dottore si ferma di fronte a un acquario senza pesci colmo di acqua limpida ma non pulita ed è presente un’assistente. Non so se il dottore mi dica di mettere la testa nell’acqua, mi pare che mi consigli di guardare l’acqua trattenendo il respiro. Io obbedisco ma è violento e umiliante. Il dottore se ne va ed io trattengo il respiro finché ho fiato, sta ricreando la mia vita di frustrazione, mi fa altro male e non ho bisogno di questo, vorrei mi aiutasse senza causarmi ulteriore dolore.

Riavvolgiamo, torno indietro, mi sto recando nello studio del dottore per parlargli e dirgli quello che penso. C’è una scala di legno, imponente, due rampe. Sto per percorrere l’ultima quando mi accorgo che ho la sigaretta in mano, non posso tornare indietro e gettarla in strada, sono in ritardo, senza pensare la butto nella tromba delle scale. Ho paura e scappo; torno ed è pieno di gente che spegne e guarda l’incendio, l’ho causato io, me ne vergogno e non lo posso dire. Il dottore è arrabbiato e spaventato, comunque distaccato, è seduto su uno scalino. Gli devo dire che sono stata io ma non posso farlo subito. Gli getto le braccia al collo, stavolta lo cerco davvero e mi metto a piangere disperata e mi abbandono.

Ho sedici anni.

Questa bestia che ho dentro in qualche modo deve uscire.

Ho zero anni.

Perdo i denti. A volte anche i capelli. Mi smarrisco nei labirinti. Sono su una macchina che non so guidare e mi vado a schiantare. La folla. Cado col lettino dal ballatoio della nonna. Non sono in picchiata ma il letto si disfa progressivamente fino a quando l’unica protezione contro lo schianto è la mia impronta sul materasso. Polvere e cenere in turbini. Mi va malissimo il compito in classe di matematica che devo svolgere.

Ho ventisei anni.

Ho molta paura. Giorni senza soluzione, senza fine. Come se il mondo fosse finito.

Ho ventisette anni.

Mi sono buttata dalla finestra: tre mesi di sedia a rotelle con le ossa rotte, prova solo a immaginarti la rabbia di una che si vuole ammazzare e resta imprigionata.

Ho dodici anni.

La gente di cui mi fidavo mi ha tradita solo per idiozia.

Ho ventisei anni.

Lui ha lavorato tutti questi mesi da casa e non mi ha mai persa d’occhio, forse l’amore è questo? Mi ascolta se gli parlo ma non chiede mai nulla, non mi chiede mai come sto, cosa penso.

Ho sei anni.

Seduta settima: lei non affronta la realtà per timore del fallimento.

Se pubblicano me, devono valere poco. Non è che scappo dalla realtà per non subire fallimenti: scappo dalla realtà per non dover rinunciare ai miei desideri.

Seduta ottava: lei non sente sue le opere che scrive.

Ho cinque anni.

Mamma mi invita, apre la porta.
La stanza è buia.
Richiude la porta e inizia a frustarmi con la cintura.
Provo ad accendere la luce, a trovarla ma non esistono spiragli.

Mi sforzo, le do tutto quello che ho.

Ho quattro anni.

Mi ama così tanto che si è fatto un calco della mia figa, dice che mi ama così tanto che non riesce solo a baciarla, a mangiarla ma deve sputarci dentro il cibo.

Sono un ingegnere civile. Ho smesso di leggere e scrivere quando avevo diciotto anni, ho ripreso a venticinque anni.

Ora ho quattro anni.

Ho dodici anni.

Siamo su una nave affollata, il mare è grosso ma il cielo è bello. La nave ondeggia pericolosamente. Mi nascondo sotto una scialuppa di salvataggio, sto rannicchiata. La gente cade in mare, sotto questa scialuppa siamo in due, un uomo è dietro di me. Anche lui si bagna, stranamente io no, io resto asciutta.

L’uomo ammazza la donna e i figli. I soldati inglesi pestano a sangue i ragazzini iracheni. Le bambine coreane nel giro della prostituzione vengono vendute come vergini e durante l’amplesso infilano nella vagina pezzi di plastica taglienti. È l’alba.

Ho mille anni.

Un futuro possibile. In cui io il bambino e il suo papà facciamo il bagno in mare. La merenda con pane burro e marmellata. In cui ci si addormenta in un lettone tutti e tre abbracciati. Qualcosa di nuovo in cui cambia il mio ruolo. In cui non sono più un peso doloroso che deve affannarsi per non trovare amore.

Non sei figlia. Non sarai mai più figlia. Non sarai mai stata figlia.

Ho ventotto anni.

Un foglio di giornale sfidando le leggi gravitazionali se ne sta verticale sul pavimento. I titoli sono in grassetto e disposti in modo molto disordinato sulla carta.

Ho ventuno anni.

Sono Pandora, il lupo nel vaso, la carcassa marcia e l’acqua. Corrotta e bastarda.

Ora che sanno che non ho più paura di fargli male, hanno paura loro.

Non voglio più che mi si dica quanto sono sbagliata e quello che devo fare. Non voglio più che quanto metto in atto mi venga rinfacciato: se va bene il merito altrui, se va male la mia inettitudine.

Corrotta e bastarda.

6 agosto

Mentre sono al sole il vento strappa un rovo di erica, mi viene addosso, riesco a staccarmi tutte le spine, salvo due.
La nocca del dito medio della mano destra è gonfia di spine e di pus. Lui prova a togliermele con le pinze ma le spinge più a fondo.
Le spine si scavano la strada nel mio corpo fino ai piedi o al cervello, mi fanno venire il tetano. Quando ero ingegnere e lavoravo nei cantieri mi bucavo anche i jeans saltando una rete marcia in fil di ferro.

10 ottobre, ho undici anni.

«Non sono del tutto certo che conoscere l’amore sia più inebriante che scoprire la poesia».

La scrittura è una malattia mentale. Scrivo e passa tutto. Passano fame, sete, stimolo della pipì.

16 gennaio, ho ventuno anni

Leggo Genet, una cosa sulla supremazia meravigliosa del crimine, un pezzo da una trasmissione radiofonica. Chiunque tenti di attenuare la rivolta con la dolcezza o i privilegi, distrugge per sé ogni possibilità di salvezza.

Mi sento in colpa per quell’uomo che ho visto rubare al supermercato l’ultima volta che ci sono andata. Guardava e intascava la merce e non ho comprato nulla per lui, non gli ho dato nulla all’uscita, speravo che consumasse all’interno del locale, altrimenti l’avrebbero preso. Era debole e io ero più forte e questo mi fa sentire in colpa.

Genet dice che i poveri sono grotteschi, lui che visse con una valigia di cartone zeppa di lettere negli alberghi schifosi presso le stazioni. Genet ha ragione.
Sono come quelle che frignano e non cambiano la situazione, «voi tollerate l’eroismo quando è addomesticato».

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