#1Libroin5W
Chi e Cosa?
I pellegrini dell’assurdo sono personaggi dall’esasperata sensibilità e dal pensiero troppo vivo, in perenne stato di crisi, che non possono fare a meno di dubitare continuamente di sé, di fermarsi a ogni passo per interrogare la realtà o dedicare tempo d’ascolto a chi ha necessità di raccontarsi, e dunque incompatibili con l’assetto forsennato e guerriero della compagine umana.
Snervati dalla mania di andare a fondo in ogni questione, innamorati di una foglia accesa dal sole, affamati di un inconcepibile infinito, i protagonisti dei quattro racconti che formano il libro sono inoltre accomunati dalla scriteriata volontà di rintracciare indizi di senso dove l’assurdo sembra non lasciare scampo. Non sanno rinunciare alla verità, alla bellezza, né alla percezione del mistero che attraversa le cose.
C’è Occaso, uomo malinconico e ironico, che un mattino viene affascinato dai balconi delle case e si trova a compiere un pellegrinaggio attraverso insolite città abitate da personaggi condannati a vedere ciò che il resto del mondo preferisce ignorare, prigionieri di un ciclico scambio di ruoli sociali, oppure ospiti di una città-ospedale dove si curano i ricordi. C’è una donna rinchiusa in una struttura psichiatrica per la sua ostinata ricerca di verità. C’è Anelide, una giovane artista che spicca per intensità espressiva durante i suoi spettacoli di mimo e nella vita quotidiana è una ragazza del tutto priva di energia vitale, la cui ultima esibizione lascerà il pubblico sconvolto.
Ma pellegrini dell’assurdo sono anche le comparse, come Petra, che si allena a camminare nell’aria, come l’uomo che tenta di rifare il mondo affidando il male ai palloncini colorati che spera lo dissolvano nel cielo, o la donna che vive in un dormitorio sotterraneo perché certe storie di sofferenza insolubile le hanno mangiato le forze.
Quando?
In un tempo che vorrei poter definire Kairos (il momento giusto) questi racconti sono venuti alla luce dopo anni, anzi, decenni, di ripensamenti, abbandoni, riesumazioni, trasformazioni. Alcuni sono stati abbozzati vent’anni fa per venir accantonati e ripresi più volte, arricchendosi di esperienze e tuttavia riducendosi in lunghezza (due nascono come ipotesi di romanzo). Siccome ho una particolare attitudine per l’autodemolizione, ogni testo che scrivo è in uno stato di perenne divenire e riesco a dirlo finito solo di rado.
Ma la dimensione del tempo che sta al cuore del libro è forse quella dell’Aion (l’attimo immenso, il tempo sospeso che contiene tutti i tempi). Si manifesta come rivelazione sfuggente in certe irruzioni di “profondissima gioia”, come tensione apocalittica nella notte che fa fermare gli orologi, come ossessiva ricerca dell’eterno nella città in cui tutto dev’essere conservato esattamente com’era, come misterioso retro della realtà dove si annuncia che i pensieri non appartengono a chi li pensa ma bussano a mille porte, mille menti diverse, quando viene per loro il momento di nascere.
Dove?
Il dove, all’interno dei racconti, è l’impossibilità di vivere senza poter dare alla vita un senso. Una impossibilità che spesso ha la sembianza di una soglia: il filo tra la vita e la morte su cui si muove in fragile equilibrio la ragazza che ogni giorno mangia un fiore velenoso sperando di ricevere salvezza; il bordo di una fontana dall’acqua stagnante e nera in cui è pericoloso specchiarsi; l’orlo del muro su cui Anelide compie una prodigiosa danza con le ossa spezzate (ricordando Van Gogh quando scrive che più diventa vaso rotto più diventa creatore).
Soglia come zona intermedia tra due realtà, di cui una nascosta e stratificata, è anche lo spazio dell’immaginazione e del simbolo in cui nasce questo libro. L’immaginazione non è fuga dalla realtà, è una modalità di conoscenza del reale complementare a quella analitica, e che costituisce una dimensione essenziale del sapere. Spesso si tende a svalutare il ruolo dell’immaginazione (e la letteratura che nasce dall’immaginazione), ma essa rappresenta il più antico organo conoscitivo dell’umanità, e quindi forse il più vicino alle verità del profondo. In ogni caso, penso che per studiare la natura e la psiche nella loro complessità irriducibile sia necessaria l’alleanza delle differenti vie di osservazione e scoperta di cui la mente umana dispone.
Sentendomi io incapace di descrivere la realtà, i racconti che scrivo abitano un luogo mediano tra il pensiero e il simbolo, tra il filosofico e l’immaginale – lo percepisco blu elettrico come quella fascia delle acque marino-costiere che sta tra la superficie lucente e lo scuro del fondo.
Perché?
Si può scrivere per tanti motivi: per illudersi di fermare la vita trasformandola in senso, per custodire smaterializzato ciò che ci è caro, per setacciare oro nel fango dei giorni, per comprendere un tormento, per una disciplina spirituale, per stare accanto al proprio dolore, per la pressione interna di intuizioni che chiedono luce, per riscattare i presunti fallimenti di una vita, per una secrezione automedicante, per il rilascio di endorfine che segue all’azione del creare o alla gratificazione delle lodi, per districarsi dal caos (spesso accrescendolo), per “uscire dall’inferno” come dice Artaud, per il desiderio di donare una cosa bella o perché, incapaci di parlare, non si ha altro modo per comunicare. Forse non importa perché si scrive un libro. Ma se lo si fa con attenzione e scrupolosità è, credo, per il bisogno innato (a cui la coscienza razionale dà le sembianze di dovere) di offrire (agli altri, a una persona sola, al mondo) quanto di meglio possiamo dare, secondo le nostre inclinazioni, per ricambiare ciò che abbiamo ricevuto. Fare qualcosa che sia fatto nel modo migliore e mettendoci tutta l’anima, sia una coperta all’uncinetto, una torta, un libro, una pratica d’ufficio o il muro di una casa, non è una imposizione morale, è un riverbero naturale nel profondo del sentire che, per quanto mi riguarda, ha radice nelle cure e nell’amore che ho ricevuto dai miei genitori.
E, ancora, chiediamoci: Che fine ha fatto la resistenza intellettuale? Specie in un momento storico “delicatissimo” come quello che stiamo vivendo, in un mondo sempre più incapace di ascoltare (e volutamente ridotto all’incapacità di comprendere) cosa può la scrittura?
Mi viene intanto da chiedermi che cos’è intellettuale, e chi è l’intellettuale oggi. Se esiste ancora. A me sembra che oggi esistano gli specialisti, ciascuno nel proprio settore, il cui sapere non può venire messo in discussione se non da chi ha le stesse competenze specifiche. È giusto, certo, soprattutto in un’epoca in cui si tende a dare un’opinione su ciò che non si conosce, ma un/una/unə intellettuale, io credo, dovrebbe avere il compito di far dialogare i saperi smembrati, e dovrebbe sentirsi liberə di mettere in discussione qualunque affermazione e teoria purché lo faccia con piena consapevolezza dei propri limiti, riflettendo con attenzione e argomentando in modo accurato, e soprattutto non stancandosi mai di porre domande, anche dove non riceve risposta. L’intellettuale può avere cinque lauree o nemmeno il diploma, quel che conta è la serietà del suo indagare, la sua mania di sviscerare il linguaggio per pensare più a fondo, l’intensità del suo desiderio di comprendere.
Ma contano anche la gentilezza e il rispetto per l’altrui sensibilità, la cautela e il riguardo. Si può cercare di snudare una verità senza farne una scure, come si può discutere senza entrare in conflitto. Amo l’intellettuale che coniuga audacia e delicatezza infinita, determinazione e cura estrema di non ferire, ribellione e tenerezza.
Credo in realtà siano tante le persone impegnate a opporre agli orrori e alla superficialità del mondo un autentico, “cardiaco”, interrogarsi e creare bellezza, il problema è che restano ignote (a meno che non siano anche abili promotrici di sé stesse), o comunque non viene data loro la possibilità di resistere a lungo, innanzitutto perché non possono vivere del lavoro quotidiano che motiva la loro esistenza. Il lavoro intellettuale e artistico dovrebbe venire pagato come qualunque altro lavoro, e non in base a leggi commerciali che non badano alla qualità. Non pagarlo significa svalutare la cultura, considerata un bene non necessario, quando invece è ciò per cui viviamo, noi strani e instabili animali che non possono in alcun modo accontentarsi di sopravvivere: abbiamo una disordinata eccedenza d’essere e desiderare che, se non impiegata nella cultura (scientifica, umanistica, artistica, senza distinzioni e auspicando contaminazioni), rischia magari di volgersi in aggressività.
Come modo essenziale di indagine della realtà e dell’interiorità, la letteratura (insieme alle arti e alle scienze pure tra cui l’astronomia per prima) è indispensabile veicolo dell’evoluzione culturale, processo sempre in atto ma che forse sta invertendo il proprio cammino. Se alla densità epifanica (lampi da specchi di un intimo dentro) di un libro giudicato non vendibile si antepongono le esigenze commerciali, se il linguaggio si impoverisce, c’è da temere che il mondo si trasformi in una fabbrica di pezzi intercambiabili, nel deserto di una rinuncia al senso priva della sua tragicità. Se il linguaggio è il corpo del pensiero (uno dei suoi possibili corpi ma non l’unico dato che esiste il pensiero non verbale), con un corpo rigido, sterile, prefabbricato in serie, il pensiero sta fermo come un soldatino di plastica, o diventa una pedina da scacchiera.
Compito di chi fa cultura e resiste è quello di scardinare i luoghi comuni, aprire la gabbia dei pensieri convenzionali, di certi inganni a cui siamo assuefatti; ma anche quello di accudire e proteggere le favole, la memoria, le assurde speranze, il desiderio di infinito, e soprattutto nutrire le due qualità più preziose della mente: empatia e meraviglia.
Senza empatia non può esserci ascolto.
“Ascoltare è spogliarsi delle proprie convinzioni, riporre in un angolo silenzioso il bagaglio delle esperienze e delle conoscenze a cui ci si affida per orientarsi nel mondo e, a cuore vuoto, accogliere tremando.”
Ascoltare è vibrare, partecipare, sentirsi smarriti di fronte all’universo ignoto dell’altro.
Sono utilissimi, per educare all’ascolto, la lettura di libri cavati con precisione e sangue dalla terra pulsante di un vulnerabile sguardo, e la scrittura come pratica quotidiana (a tutti consiglierei di scrivere ogni giorno un diario), anche solo perché queste due attività sono un vivo dialogo con tutte le parti di sé (memoria, emozioni, pensiero razionale, immaginazione, percezione). Quanto più ci sono interazione, lotta, riconciliazione tra emotività e razionalità, lucidità e follia, attenzione e dispersione, tanto più matura libera e sensibile, accogliente e tremante, una mente umana.
Importante però è che si legga ciò di cui si ha fame, come suggerisce Simone Weil. Quindi che non si imponga la lettura ma se ne trasmetta il piacere, e che si pubblichino i libri di cui abbiamo disperatamente fame, salvifici come frutti succosi nel deserto quando tutto appare assurdo, inaccettabile e sembra non esserci più via.
Scelti per voi
Adesso voglio dirti tutto.
No, è impossibile. Devo limitarmi a ciò che le parole sanno circoscrivere o indicare in lontananza, ed è così poco che alla fine straccerai questa lettera ridendo: “Questa non sei tu!”
Ma ho bisogno di scrivere per dare corpo ai pensieri e per pensare a fondo, anche se le parole vengono a fatica e le mani faticano a versarle sulla carta perché tremano.
Da bambina le mani mi si riempivano di vento. Salivo in cima alla collina degli aquiloni e spalancavo mani e braccia: era il mio modo per abbracciare l’infinito.
La collina si chiamava così perché vi si organizzavano tornei di aquiloni a cui partecipavano tutti i bambini del paese. Tutti tranne me: io non avevo un aquilone, volevo correre libera.
Ero una bambina strana – così dicevano. Mi piaceva stare sola a canticchiare canzoni inventate guardando il cielo e scappavo via se qualcuno si avvicinava o mi rivolgeva la parola. Stare in mezzo agli altri era un continuo schianto del cuore […]
*
Disegnato nel buio dalla luce fredda della luna e dei lampioni dietro il vetro, il pianoforte, muto d’abbandono.
Un pianoforte non sfiorato dalle dita è la realtà di nulla e la possibilità di tutto. Unità indivisa in attesa di smembrarsi, come l’universo prima della nascita.
Creare è distruggere la perfetta totalità del niente. Mi avvicinai per distruggere, ma il silenzio vinse.
*
Per anni mi sono ribellato alle sopraffazioni, ho lottato contro l’indifferenza, e ne ho pagato le sconfitte. Ero sempre più deluso e scoraggiato, non vedevo più niente di buono per cui valesse la pena lottare né vivere. Ecco, diventare adulti è forse questo: essere stanchi e acconsentire a perdersi, qualche volta a spegnersi. Io divenni un automa che vagava per le strade in attesa che finisse la giornata, un automa che lavorava in attesa che finisse la notte. Attendevo di finire, nient’altro. Poi è arrivata quella sera d’estate: camminavo senza meta per la città prima che venisse l’ora di andare al lavoro quando ho visto che c’era uno spettacolo all’aperto. Per far passare più in fretta il tempo mi sono intrufolato e sono stato rapito… il tuo spettacolo era crudo, doloroso, terribile. Eppure, era come lo scoperchiamento di qualcosa di grande, potente, puro… non so nemmeno io come dire…
So solo che quella sera ho capito che non avevo pensato abbastanza a fondo da arrivare al pensiero più semplice: o tutto ha un senso o niente lo ha. Si tratta di due condizioni radicali: o l’una o l’altra, ma entrambe offrono possibilità di riscatto.
*
Tersanuda è un paese di pochi abitanti, il cui sviluppo industriale è piuttosto arretrato, ma il cui progresso intellettuale, procedendo per salti, ha superato quello del resto del mondo.
Non c’è nessuno tra gli abitanti di Tersanuda che non abbia approfondite conoscenze scientifiche e umanistiche, come non c’è nessuno che non sappia dipingere, scolpire, suonare, cantare, scrivere poesie. La produzione artistica e letteraria è scarsa, ma non è mai superflua. Le opere realizzate da ciascuno degli abitanti, magari una sola poesia all’anno, o un acquerello ogni due, un dipinto a olio ogni decennio, sono di una bellezza che lascia senza fiato. Quando qualcuno muore, evento che, data la penuria del numero di abitanti, si verifica in media una volta ogni tre anni, la vita si ferma, come ti dicevo, e resta ferma almeno per un anno. C’è chi passa le giornate accasciato su una sedia con la testa tra le mani, chi sta tutto il giorno a letto a fissare il soffitto. Nessuno ha per l’altro una parola di conforto, e spesso nemmeno più parole per nominare le cose quotidiane, tanto che la comunicazione basilare, che riguarda le necessità concrete di ogni giorno, si riduce a cenni del capo. Ma, sebbene non si parli e non ci sia niente da dire, la comunicazione corporea non è mai così spontanea e bruciante come nei periodi in cui tutto si ferma. A Tersanuda ci si prende per mano e si sale sui tetti – lì si sta abbracciati a piangere sotto il tremore delle stelle.
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Silvia Giacomini ha pubblicato raccolte di raccolte tra cui La metamorfosi delle cose (Progetto Cultura 2015), I pellegrini dell’assurdo (Il Convivio Editore, 2025), e di poesie tra cui Il sangue del cielo (Italic Pequod, 2014), La tentazione di essere vento (La vita felice, 2014), Mal Bianco (Ladolfi, 2019), Cittadinanza d’altrove (Le Càriti Editore, 2025). Attrice di teatro, ha avviato l’attività della compagnia I Desideranti realizzando spettacoli andati in scena presso il Civico Planetario di Milano, per il F.A.I. a Villa Necchi, per il festival della biodiversità al Parco Nord Milano. Formatasi in drammaterapia, ha condotto laboratori di teatro creativo, in particolare nell’ambito del disagio psichico. a tenuto mostre personali di incisioni a Varese e Milano e una mostra fotografica inserita nel Circuito Off del Festival di Fotografia Etica di Lodi.
Foto di Lorenz De Bor








