Giampaolo Talani
 
 
Gli amanti che passano la vita insieme non sanno
dire che cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può
certo credere che solo per il commercio dei piaceri
carnali essi provano una passione così ardente a
essere insieme. È allora evidente che l’anima
di ciascuno vuole altra cosa che non è capace
di dire, e perciò la esprime con vaghi presagi,
 come divinando da un fondo enigmatico e buio 
 (Platone, Simposio, 192 c-d.)
 
 

Indagando le pieghe della “sfera intermedia” tra gli uomini e gli dèi cui Eros, il daimon, appartiene, Umberto Galimberti in un libro pubblicato quasi dieci anni fa, Le cose dell’amore (Feltrinelli 2004), descriveva le molteplici manifestazioni dell’amore nell’esperienza umana, nel tentativo di risolvere l’enigma che, secondo Platone, con l’amore l’anima pone a se stessa, ma esprimendosi solo “con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio” (Simposio, 192 c-d).

Le “cose dell’amore” sono precisamente quei presagi: i volti e le figure che Eros assume nella psiche e nella vita dell’essere umano quando, per un incantesimo della fantasia, i frammenti dispersi che costituiscono la sfera emotiva profonda e che oggi, nell’era della tecnica, a volte sembrano quasi impronunciabili e indecenti, si coagulano e si rappresentano in una persona “speciale”.

Un atteggiamento cosciente votato in modo unilaterale al culto della cosiddetta ragione, o meglio l’adesione ingenua a una visione letterale e superficiale del reale, vissuta come unica realtà oggettiva, rende l’individuo assolutamente inerme di fronte alla propria complessità e lo espone alla possibilità che l’irragionevolezza, la “follia” cui Eros permette il transito (nel mito Eros è figlio di Pòros e Penìa: il passaggio e la mancanza)  dilaghi a proprio piacimento: come nel caso dell’amorepassione,  nel quale Eros costringe a patire, a cedere passivamente a un impulso che “vuole esprimere l’eccesso, l’insolito, lo sconvolgente, e non può farlo se non infrangendo le regole della ragionevolezza” (Galimberti, p. 144).

Ma la passione non permette alcuno scambio interpersonale, perché l’altro non esiste se non nell’immaginario; la passione non induce alla reciprocità ma solo a un desiderio di fusione con un’idea di perfezione, immaginata e proiettata nel volto dell’altro; si nutre dunque di irrealtà e impossibilità, perché l’idealizzazione che accende la passione non accetta il contatto col reale, non supera la prova di realtà e ha come suo rovescio la disperazione: quando l’oggetto della passione delude (e prima o poi inevitabilmente delude) o si sottrae, il soggetto che in esso si rispecchiava diventa vuoto e insignificante.

Se quello che viene chiamato amore si rivela soltanto un gioco di specchi sospinto dall’inconsapevole ricerca dell’altra parte di sé e diventa l’unico rifugio per tutto ciò che non ha dimora in un mondo dominato dalla cosiddetta razionalità, dall’efficienza, dalle leggi dell’economia e dell’apparenza, se questo “amore” non cerca e non vede realmente l’altro, perché il meccanismo della proiezione riduce l’altro a simulacro di ciò che l’individuo non conosce o non riconosce di se stesso, l’irruzione di Eros, il daimon di cui “l’Io non dispone, ma semmai è qualcosa che dispone dell’Io” (Galimberti, p. 153), diventa possessione e dissolve l’Io nell’indistinto, destituendolo di ogni potere di giudizio e di controllo. E le varie declinazioni dell’amore con la sessualità, il desiderio, l’idealizzazione, la seduzione, la passione, la gelosia, il possesso, il tradimento, l’odio e così via, appaiono come possibili aspetti di ciò che con l’amore per l’altro non ha nulla a che fare, fino ad approdare a un’inquietante contiguità con la follia. Non stupisce allora che suicidi o delitti consumati in nome di questo cosiddetto “amore” riempiano le cronache, oppure, senza arrivare a conseguenze tanto estreme (sia pure in preoccupante aumento), che le cosiddette “relazioni passionali” siano caratterizzate da tante sofferenze emotive, tormenti, assurdità.

Allontanandoci solo formalmente dalla vicenda umana personale, che il mito comunque raffigura nelle sue componenti fondamentali, la comparsa di Eros, del mediatore “tra la ragione che l’uomo ha costruito e la follia che ancora lo abita” (Galimberti, p. 153), potrebbe e forse dovrebbe essere l’occasione per dare voce a quella parte di sé che non ha ancora trovato spazio nell’assetto della personalità individuale, potrebbe offrire l’opportunità di tornare a creare parole nuove, capaci di spezzare gli automatismi di una coscienza che ripete parole divenute “dure come sassi” – direbbe Nietzsche – e dunque svuotate di significato.

Dal punto di vista psichico la cacciata dal “paradiso” esprime metaforicamente la rottura dell’Uno, quella lacerazione inaugurale tra coscienza e inconscio che ci rende umani, ma che nel tempo si è trasformata sempre più in una guerra tra fratelli nemici, tra ragione e sragione, dove il “nemico” inconscio, banalizzato e respinto, è costretto alla clandestinità, talora nelle pieghe di misticismi popolari inculturati, orientalismi di massa o pratiche di posture imbalsamate; mentre d’altro canto celebra la sua fantasia di vittoria la tracotanza (hybris) della ragione umana che “nell’illusione di possedere una conoscenza senza limiti […] rivendica a se stessa il potere di trascendere ogni limite” (M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, Cortina 2010, p. 61). Senza neanche accorgersi che, perduto il limite che la definisce, la coscienza perde definitivamente anche se stessa e si disperde nella ricerca spasmodica di cose nel mondo esterno che rispondano al suo ineliminabile bisogno di integrazione. Ma si tratta di un bisogno interiore reso incontenibile e mai soddisfatto proprio perché esaurisce nel rincorrere e nell’appropriarsi di qualcosa di esterno il tentativo vano di colmare una mancanza a essere strutturalmente costitutiva. E così si scambia per “amore” (passione) l’intensità stessa del bisogno di riparare la propria personale frattura attraverso il possesso della persona “amata”, che diventa “qualcosa” di cui disporre, nel bene e nel male, perché a livello inconscio rappresenta una parte irrinunciabile di sé.

Quella frattura, tuttavia, non è mai sanabile, né inseguendo il miraggio di un ritorno al paradiso delle origini, abbandonandosi dunque alla seduzione di un’impossibile totalità e dissolvendosi in una pseudo-relazione caratterizzata esclusivamente da possesso e dipendenza; né quando ci si impegni a rafforzare proprio ciò che quella frattura ha radicalizzato, riaffermando con forza il primato dell’istanza egoica che solo con ciò che chiama “ragione” si identifica e che dunque si sottrae difensivamente a una reale partecipazione emotiva alla vita di relazione.

Il “disordine” e lo “stupore” che si producono “al passaggio di Amore” potrebbero diventare, invece, possibilità di incontro e confronto con “gli abitanti di quel mondo che sta prima dell’umana ragione e che offre alla ragione i contenuti da ordinare” (Galimberti, p. 152, corsivo mio), ma solo se l’Io, mantenendo i propri confini e la funzione che gli è propria di fare ordine e gettare luce, riuscisse a riconoscere l’alterità dell’emozione che lo attraversa quale possibile interlocutore di un dialogo interiore che inevitabilmente lo relativizza e proprio per questo potrebbe contribuire a un arricchimento della personalità: sottraendo il soggetto all’identificazione con quella maschera con un’unica espressione (Nietzsche) in cui ha creduto di riconoscere se stesso. E ciò permetterebbe anche il riconoscimento dell’altro della relazione come individuo separato e distinto, a sua volta alle prese con il proprio personale incontro con le profondità segrete della sua dimensione psichica.

Che ne è allora in questo quadro dell’amore tra due persone?

La crisi del matrimonio che percorre la cultura occidentale si fonda, come sostiene Galimberti, da un lato proprio su una concezione dell’amore che lo consegna esclusivamente alla passione e alla sregolatezza, e dunque all’imprevisto e all’impossibilità della durata; dall’altro sull’inefficacia degli strumenti tradizionali di “regolazione” su cui insistono tutte le morali: “la moderazione, il contenimento, la proibizione”. Ma l’altro polo della dialettica esistenziale non è la moderazione, ci avverte, bensì l’azione che non si accontenta di una felicità passiva:

Non si dà un amore che, invece di patire, agisce, che invece di declinarsi sul solo versante della passione […] decide in modo irrevocabile e, a partire da questa decisione, non subisce l’amore, ma lo crea? (Galimberti, p. 138).

Compare qui, sia pure in forma interrogativa, la figura ambigua dell’amore-azione, che non evade dal mondo, come fa invece l’amore-passione votato a una dimensione illusoria, ma “assume il proprio impegno in questo mondo” (Galimberti, p. 139). Ciò sembra implicare intanto l’invito a concepire l’amore non più come uno stato (la condizione di innamoramento, per esempio), ma come un atto che

invece di divinizzare il desiderio e la sua incontenibile brama che consuma la vita, invece di rendergli un culto segreto e di aspettarsi un misterioso accrescimento di gioia, sta alla parola data e, a partire dalla fedeltà al patto, prende a costruire scenari d’amore (Galimberti, p. 139).

La proposta è molto suggestiva, pur lasciando aperti alcuni interrogativi. In che modo, per esempio, questa “fedeltà al patto” non significa voltare le spalle alla passione e negarne il ruolo nella vitalità della relazione? In che cosa l’amore-azione si differenzia veramente da quel conformismo moralistico che, prima dell’avvento del divorzio, ma spesso anche dopo, ha tenuto in piedi relazioni senza amore, contribuendo a tutta la mitologia negativa nata intorno all’amore coniugale e all’idea di fedeltà?

Giampaolo Talani, Gli innamorati
Giampaolo Talani, Gli innamorati

Io credo che l’amore-azione di Galimberti, che rinvia nella mia percezione alla figura di Socrate musicista proposta a suo tempo da Nietzsche come superamento di un razionalismo unilaterale e borioso, contenga in sé, e non possa non contenere, il gioco dei contrari: ragione e irragionevolezza, impulso e riflessione, passione e volontà, intensità e durata, l’uno e l’altro impegnati in una tensione che arricchisce e alimenta entrambi i poli, perché fondamentalmente li sottrae all’obbligatorietà di un agito unilaterale e li spinge continuamente alla creazione di altri modi di manifestarsi, li costringe, in definitiva, all’assunzione di responsabilità, perché, come diceva Musil, solo “l’uomo responsabile può sempre agire anche diversamente, ma l’irresponsabile, mai!” (R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi 1957, p. 256).

Se l’atto che “crea” amore è responsabilità, e dunque possibilità di agire diversamente, non si possono prefigurare gli “scenari d’amore” che la “fedeltà al patto” dovrà costruire, perché quella responsabilità condivide la natura creativa della nuova figura: l’amore-azione, se non è un rigurgito di razionalità presieduto dal Super-io, come potrebbe sembrare a una lettura frettolosa, dovrà trovare espressione e realizzazione negli esiti sempre nuovi e imprevedibili del confronto con ciò che per la sua estraneità, dentro ciascuno di noi come individuo e fuori di noi nella relazione con l’altro, continuerà a spiazzarci, sorprenderci, interrogarci.

Amore, dunque, come apertura di un’area di incontro/confronto tra due soggetti che condividano lo stesso impegno individuale, forse la stessa passione, ad attraversare e accettare in modo radicale la reale condizione umana: strutturalmente plurale e irriducibilmente contraddittoria.

Forse di questa versione dell’amore non esiste ancora una fenomenologia da raccontare, e forse per questo Galimberti non ce l’ha raccontata, lasciandoci la libertà e la responsabilità di sperimentare in prima persona le nostre possibilità di amare diversamente.

 

 

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