Aldo Nove, “Poemetti della sera”, Giulio Einaudi editore.

Quella di Aldo Nove è ancora una volta una poesia «massimalista» che affronta i temi della vita e della morte, e della generazione: i rapporti e gli affetti familiari, da cui sempre si parte, si sciolgono nelle ere geologiche e nelle «onde senza fine da cui proveniamo», mantenendo lo stesso calore emotivo. Il sentimento panico è fortissimo: «Il giorno della mia morte | … | canteranno con me i fiumi, | le pietre, ogni atomo canterà | e avrà la mia voce | … | E credo e so che ogni differenza è | apparente, e il giorno | della mia morte tornerà | niente… | Il giorno della mia morte | sarà il giorno del mio matrimonio | con ogni istante. Nulla | sarà piú distante». Il libro raccoglie poesie scritte dal 2015. Privilegiata è la forma del poemetto che permette di ritmare la pulsazione e il respiro di tutte le forme viventi. Versi brevi, incalzanti, molto rimati o assonanzati, incastonati in forti strutture anaforiche. Ne deriva una sorta di preghiera laica a metà fra il salmo e il rap, perfettamente aldonoviana.

 

Due testi scelti da “Poemetti della sera” di Aldo Nove, Giulio Einaudi editore, 2020.

 

L’attimo azzurro

C’è un incontro fatale ogni notte, tra le due e le tre
del mattino, quando il luogo dove abitiamo è rivolto
dalla parte opposta al sole e la sua luce abbagliante
non c’è. Allora il respiro si fa più veloce, il consumo
di ossigeno da parte del cervello aumenta. L’incontro
è turbato dai campi elettromagnetici artificiali
presenti soprattutto nelle grandi città, dove la psiche
soffre di più, è sola in mezzo a una moltitudine triste
e indifferente, si adatta a fare lavori tristi e umilianti.
Tuttavia questo incontro può avvenire anche quando
siamo svegli, se siamo attenti a segni, indizi e i tanti
eventi che stanno avvenendo in cielo e in terra…
GIULIANA CONFORTO

 

Una volta discesi
nel silenzio vibrante
che chiamiamo istante
non c’è che, vorticoso,
il presente. Da piccolo, lo sapevo.
E stavo sveglio
ad aspettarlo
e ero solo.

Sempre più solo,
nel cosmo
sotto le coperte
col mio pigiama celeste
mi abbandonavo,
viaggiavo
immobile negli spazi
più lontani.

Vedevo i giorni,
com’erano
altrove,
strani.

Chiudevo gli occhi,
aspettavo
l’attimo azzurro,
come chiamavo allora
quel capogiro
dei millenni in una svolta
di secondo, tra un’ora e
un millennio
oscillavo.

Ero un astronauta
clandestino
dentro il centro
di ogni cosa
che si apriva
abitavo. Ero
compiutamente un bambino,
attraversato dalla dolcezza
del Creato. Ero ciò che ero
e sarei sempre stato: il testimone
del mare,
del cielo,
delle rocce,
del vuoto. Ero
l’ignoto
a Viggiù, in provincia di Varese, io
ero le chiese,
le case, i respiri di tutta
la gente. Ero l’universo contratto
in niente e poi dilagante
nelle stanze
di ogni paese,
in ogni galassia,
in ogni astronave
e in questa terra,
in ogni montagna,
nella sabbia
del mare,
nei molluschi,
nei sogni rimasti in qualche luogo
degli Etruschi, ero
gli Egizi,
i Romani,
gli anziani negli ospizi,
i neonati negli ospedali,
ero tutte le figurine
degli animali
attaccate alla volta
celeste, ero le stelle
appiccicate
al frigo, ero un rigo
del pentagramma
dei mondi,
risuonavo
negli sfondi
di ogni paesaggio,
ero presente, ero vivo,
capivo che tutto
come sempre mutava,
che niente si ferma,
che non c’è stazione,
ero espansione
del mio stesso respiro,
ero un altro
giro di giostra,
la nostra. Ero un raggio
del sole, la sua distanza,
il suo tragitto, il nostro racconto
non scritto
nelle pagine
della mia stanza, ero
la luna
e il sole e
il loro incontro,
il solinunio imponente
che ogni notte ritorna a mostrare
i due volti che diventano
uno, quello che abbiamo
quando siamo noi
stessi, quando
siamo noi per davvero,
dimentichi di ogni cosa
e nella dimenticanza uguali
ad ognuna, quando nell’attimo
azzurro ogni realtà
è una, sposata a
sé stessa,
completa, pianeta
e atmosfera,
mattina,
notte,
pomeriggio,
sera.

Allora, trasparente,
diventavo gli alberi fuori
dalla finestra,
la loro essenza,
la clorofilla,
il colore verde,
il suo sapore,
il vento che mi scuoteva
e parlava con la voce di mia madre,
con la voce di mio padre
mi chiamava, mi raccoglieva
attorno al fuoco centrale
in cui ogni animale,
ogni pietra, ogni goccia
d’acqua si radunava.

Allora ogni tempo tornava
attuale, e non c’era
presente,
passato
o futuro, non c’era
alcun muro
o barriera,
non c’era
piú notte,
mattino,
pomeriggio,
sera.

Nell’attimo azzurro
siamo stati tutti. Tutti
da lí veniamo. Il segreto
è che da lí
non ci siamo mai spostati
perché non siamo mai morti
e non siamo mai nati. Solo
un attimo
distratti, strappati
al tutto, come per inclinazione,
come biglie siamo
scivolati in un miscuglio
di idiomi,
di colori, di stati, di presenti e
passati. Quando abbiamo
indossato la maschera
che abbiamo,
tu che leggi,
io che ho scritto

ci ritroveremo, un giorno, nello stesso
infinito adesso.

 

 

Dio

Io sono un bambino
che gioca a nascondino
con Dio, cioè con sé stesso.
Sono l’adesso.
Sono l’ombra di un cipresso,
le nuvole che ne tracciano le forme.
Sono le vostre orme.
Sono ovunque camminiate.
Sono le stagioni passate
e le future.
Sono le vostre avventure.
Le vostre paure.
Io sono un bambino
che gioca a nascondino
con Dio, cioè con sé stesso.
Sono l’adesso.

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