“Alla cibernetica guerriera” di Marco Nicosia. “La poesia rovina molte cose e affonda il dito dentro ferite profondissime”.

tre domande, tre poesie

 

Sin dal primo testo, La cibernetica guerriera vibra il colpo e lo scotimento ci consegna il frutto travagliato del linguaggio di Marco Nicosia. Un’opera prima che si offre in forma di vibrazione, appunto, pensiero della differenza e mimesi di un ascolto non fallogocentrico. Il lettore trovi un punto fermo al quale appigliarsi oppure scampi al pericolo, imparando ad assecondare le vibrazioni del colpo inferto dalla guerriera.

(dalla nota critica di Maria Grazia Insinga)

 

Partiamo dal titolo: qual è stata la scintilla che ha portato il tuo Alla cibernetica guerriera? Meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?

Alla cibernetica guerriera è figlia del Manifesto Cyborg di Donna Haraway (1985) e dello Xenofemminismo di Helen Hester (2018). Il titolo nasce quando ti ritrovi ad ancheggiare fiera in via Merulana con molte protesi: le scarpe platform di dieci centimetri, lo smalto, gli orecchini. Allora sai che un altro regno è possibile. Questi due manifesti ti dicono che puoi sognare di avere le ossa d’acciaio e un’intelligenza sovrumana, che hai uno straordinario potere sul tuo corpo e sulla tua mente senza dover passare per la medicina. Mandi al diavolo le vecchie categorie e sguazzi nel caos che gli altri troverebbero disturbante.
Il linguaggio in questo senso è sempre importante e può essere insolente. Nella lingua scritta, come quella della poesia, noi lo usiamo per cristallizzare una sensazione, un’immagine. Il mio linguaggio invece è quello di tutti i giorni, è fluido, poroso, procede per correzioni, indietreggiamenti, negazioni. Attraverso il linguaggio noi ci forgiamo un’identità, ma l’identità non è mai stabile. Soprattutto la lingua italiana tende a cristallizzare la nostra forma attraverso i pronomi, maschili o femminili. L’illuminazione è quando puoi usarli entrambi senza rendertene conto. Puoi scegliere se soffrire di questo vuoto sotto i tuoi piedi o se godere della vertigine. Per me è divertente occultarsi dentro al labirinto degli specchi. Cominci a vedere i fantasmi delle tante gemelle, ognuno è vero a suo modo; fanno vibrare le pentole e i lampadari, ti connetti con le loro ondulazioni. E il linguaggio lirico è potentissimo. Ho scoperto che lo so usare bene quando un uomo mi ha detto: «questa poesia è molto bella, ma mi ha fatto male». Chef’s kiss.

Ad oggi, dove sei stato condotto dalla scrittura, e qual è stato l’insegnamento?

Difficile dire se la poesia porti ancora in sé un insegnamento. E semmai lo portasse, non sarebbe facile da scoprire. È un vaso di Pandora. Quando la apri, il vento ti sferza il viso e la tua bocca si spalanca. La poesia rovina molte cose e affonda il dito dentro ferite profondissime. Comincia a latrare con suoni gutturali e le tue orecchie non sentono più cosa in fuori ti circondi. Credo che oggi essa non possa più avere una sua morale, è finito il tempo della letteratura. Sanguineti diceva «dopo di noi il diluvio», e aveva in parte ragione. Scrive bene Maria Grazia Insinga, nella nota critica al mio libro, quando cita Alice nel Paese delle Meraviglie: «Dear! How queer everything is to-day!». È uno spaesamento che non lascia certezza alcuna. Dunque, per rispondere alla tua domanda, il punto a cui la poesia mi ha condotto è una vetta alta… elevazione pura dell’anima… puoi decidere se goderti il panorama o tuffarti dal burrone. Poi non si può parlare che per sé stessi. Rifiuto di scrivere a nome di una generazione o di una setta. Il messaggio diventa sempre più singolare, è una metafisica con cui ho potuto riempire certi buchi e sfamarli.

«La voce che implora / silenzio che sente / il destino sopra al cervello». Con i tuoi versi per chiedere: la poesia è (forse) un destino?

La poesia è un destino, talvolta tremendo. I versi che hai citato sono tratti da un trittico che parla del mio divorzio. Li ho composti mentre elaboravo la mia tesi su Antonia Pozzi: a ventidue anni, come lei nell’età fragile, ti ritrovi con una mancanza e il rischio di immedesimazione è estremo, pericoloso. Allora leggevo i suoi diari e un angelo l’aveva portata alla sua tomba: «Mi sento in un destino. È difficile che queste intuizioni siano sbagliate». Non si era sbagliata affatto. Quindi ti chiedi se quella del poeta sia una condanna e se ci sarà mai una redenzione. Anche quando la poesia finisce è una condanna. «Scrivere è chiedersi come è fatto il mondo – diceva Amelia Rosselli – quando sai come è fatto forse non hai più bisogno di scrivere. Per questo tanti poeti muoiono giovani o suicidi».
Nei momenti difficili ti capita di sentire una stretta al cervello: pensi ad Antonia, ad Amelia, a Sylvia, vedi le loro immagini circolare come degli angioletti sulla tua testa, ti tentano.
Il tuo corpo diventa quello di tutte le scrittrici, con una differenza: sei la sorella che torna al mondo per vendicarsi, piena di rabbia, sotto una forma nuova e potente. L’unione mistica con queste figure, la reincarnazione multipla ti consolano e ti dicono che non sei sola. Anche i farmaci a volte aiutano.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro, e di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha visto nascere (nel contesto del libro che l’accoglie).

La prima poesia che cito è stata scritta in un giorno afoso in Sicilia. Hai subìto uno spacco tremendo e senti il vento caldo che penetra sotto la tua maglietta. Allora osi affacciarti alla veranda di casa e vedi i ragazzi fare jogging a torso nudo in spiaggia. Pensi che non meriti nulla di tutto ciò. Riprendendo il pensiero sufi: goditi il desiderio senza ottenerlo; anche i dervisci girano su sé stessi tentando di raggiungere il divino… il desiderio insaziabile che ci sconvolge la spina senza mai cogliere il sublime…
Non mi è mai piaciuta la mia casa in riva al mare, e nel momento culminante della tristezza ecco che c’è la processione della Vergine Assunta portata su di una nave. I contadini salgono sull’imbarcazione suonando dei corni ancestrali, che ho scoperto essere strumenti ebraici chiamati shofar, e poi anche i pescatori cominciano ad accendere le loro sirene nautiche. Ti connetti con quella vibrazione, è bellissimo, sei parte del consorzio umano. E pensi che se morissi in quel momento il tuo corpo assumerebbe la temperatura dell’esterno e sarebbe più facile decomporsi.
Le altre due poesie parlano anche un po’ di questo, di quando il cerchio comincia a chiudersi e sei pronta per la partenza.

*
⠀⠀⠀⠀suonare corni per mare
e pregare vergine donare
⠀il caldo che rende i ragazzi
⠀⠀⠀più belli in salsedine e buona
⠀l’aria da cui il corpo spande
brevi decomposizioni –

*
non fa che arieggiare
questa estate e cosa
vuoi che importi rifai
i vuoti porta il buio
lo spazio la candela

— daccapo —

quest’estate non fa che
arieggiare e il cerchio
si stringe nell’occhio velato
dei padri al punto in cui

versi più vaghi hanno inizio

*
per seguire il tuo piede
biondo il tuo volto ariano
il tuo maschile gigantismo
se n’è andata tutta la provincia
e la lingua batte per chi continua
fino alla fine della capitale:

oh dove potresti più trovarla
la felicità che tu hai detto a me?
la mammella che io ti ho dato
vedi non esiste più –

adesso se vuoi alza il pedale
segui lo stormire ingozzati
il respiro – qui non c’è
più nulla da trovare

 

Marco Nicosia (2000) ha studiato Lettere Moderne e Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Collabora con diverse riviste cartacee e online, occupandosi di traduzioni, saggi e interviste. La sua prima antologia poetica, Alla cibernetica guerriera, ha ottenuto una segnalazione speciale al XXXVII Premio “Lorenzo Montano”.

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