tre domande, tre poesie
Andrea Italiano (nella foto in copertina di Giorgio Torre) è nato a Barcellona Pozzo di Gotto nel 1980. Si è laureato al DAMS di Palermo. Ha pubblicato le raccolte poetiche Guerra alla tonnara (Ladolfi Editore, 2011). Solo l’uomo (Ladolfi Editore, 2016), La Coca (L’Arcolaio, 2021). Per la saggistica d’arte ha pubblicato: Caravaggio in Sicilia. L’ultima rivoluzione (2013), Novara d’Arte (2014), L’arte con i miei occhi (2015), La Basilica di San Sebastiano in Barcellona (2016), Filippo Jannelli 1621-1696 (2017), Straordinari (2018), Sulle tracce di Caravaggio. Alonzo Rodriguez “principe dei pittori messinesi” (2020) tutti per la casa editrice Giambra Editori e Salvatore De Pasquale da Messina. Prima ricognizione critica delle opere (Alessandro Mancuso Editore, 2022).
Introduciamo la nostra intervista, con uno stralcio dalla nota introduttiva di Diego Conticello al libro “La coca”, il più recente di poesia: “Siamo dunque di fronte ad una articolata genealogia dei “vinti” di ritorno, che sembra imbalsamare tutte le figure evocate – ivi compreso lo scrivente – all’interno di lallazioni e analfabetismi vitali nel segno inequivocabile di un irredento destino, di una immobile fragilità però sempre alla continua ricerca, ed è questo il vero pregio, di un guizzo oltre la superficie ingabbiante/asfissiante delle torbide e regressive acque dell’isola-mondo”.
In che modo la (tua) vita diventa linguaggio, qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “La coca”?
Della poesia, fino a questo momento, mi sono fatto un’idea ben precisa (non so quanto giusta o sbagliata) e cioè che essa deve essere sostanzialmente “verità”. O per un usare un termine meno problematico, la poesia deve essere “testimonianza”. Solo in questo per me consiste un poeta, cioè nell’essere strumento conoscitivo del mondo, il proprio mondo. Perché ognuno può legittimamente testimoniare ciò che vede, ciò che conosce, ciò che vive, ciò che può toccare per mano. La mia poesia, la poesia che prediligo, è qualcosa di tangibile, fatta di terra direi, quasi un “corpo vicino”, un altro corpo vicino al mio. Nessuna astrazione, nessuna fuga: cose anche banali, da cronaca, politica più che filosofia, ma non posso farci niente. E in questo momento ciò che mi circonda (o quanto meno ciò che io scorgo) e quindi posso testimoniare attraverso la poesia è un aspetto poco idilliaco della vita, regolato dalle dinamiche del consumo, di tutto e tutti, in primis di se stessi. Ma è tutta la nostra società che vive pensando continuamente a ciò che può consumare oggi o al massimo domani, senza lasciare spazio ad altre cose. Forse è sempre stato così; forse non può non essere così. E per vivere in questi tempi devi necessariamente prendere la “coca”, non solo per sostenere i ritmi della vita stessa ma anche per non vedere ciò che accade, ciò che fai e ciò che perdi. Chi sei diventato. Questa coca di cui ti parlo è l’adeguamento della propria esistenza ai valori che scaturiscono dal binomio acquisto/vendita. Essere perfettamente nella macchina e per la macchina. Ecco la scintilla che ha dato inizio a questo libro, i cui germi tematici e linguistici si trovano già in “Solo l’uomo” ma che qui arrivano al punto massimo o forse al grado zero della sopportazione. La lingua. La vita che entra nella lingua, il mondo che entra dentro la lingua della poesia. Ho letto qualche tempo fa il post di una poetessa in cui si diceva che la poesia deve parlare la stessa lingua che si parla nei bar. Sono d’accordo, ognuno deve scrivere poesie usando le parole che sente al bar. Ma ci sono bar in cui si usano le parolacce e bar in cui si parla il latino: ebbene ognuno ha il suo bar e da quello deve prendere esempio. Nei bar che frequento io si dicono parolacce e si urla di dolore, si impreca e si ride: queste parole troverete nelle mie poesie. Per adesso. Domani non lo, forse cambio bar… e allora cambierò parole. Chissà.
Riporteresti una poesia (di altro autore) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti, rivelandoci cosa “muove” la tua “preferenza”?
… Ardo, riluco.
E non ho più nome.
E l’alpi e l’isole e i golfi
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch’io nomai
non han più l’usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome né sorte
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.
E la mia vita è divina.
Stranamente, o forse proprio per contrappasso, la mia poesia “preferita”, quella che ascolto molto spesso (quando ho voglia di “sognare”) è Meriggio di D’Annunzio, proprio per immergermi un mare vitale dove tutto è il contrario di quanto vedo e scrivo io; non l’uomo-cane che “produce-consuma-crepa” come il mio oggetto (o soggetto?) poetico, ma l’uomo-uomo, che vive fuori e dentro la Natura e le cose, che è parente prossimo dell’uomo-Dio. Ah D’Annunzio, croce e delizia della poesia italiana del Novecento.
Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro, “La coca”; di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Felice mi parlava di spaccio
diceva che diversamente dai suoi tempi
oggi gira molta più coca che erba,
così lui spiega i bambini sballati di tredici anni
le ragazzine senza mutande a quattordici.
Non so se dice il vero magari Felice ha sognato
ma passando dallo scientifico tra casa-lavoro
mi sono fermato a guardarle queste formiche sciamanti,
le femmine sono più scaltre dei maschi
e ci credo che già se lo prendono appena escono di casa.
Li ho osservati bene questi figli disperati
sono diventati quello che volevamo
e la coca di Felice esiste,
siamo noi che gliela vendiamo.
—
Prosciuga l’acqua nel cesso lo scirocco
l’abbassa fino al livello dello scarico
e sale puzza di secco e voltastomaco.
È vento che entra dentro le donne
se portano le gonne le penetra da sotto,
qualche ora fa ha ribaltato un tir sull’autostrada
trasportava salsa per pizza
ed è stato rosso su rosso.
Un poveraccio di 38 anni è morto
pare che avesse guidato 16 ore di fila
il giorno prima 16 pure
e così senza riposo da una vita
gli dicevano che si sarebbe riposato da vecchio.
S’è ribaltato per colpa loro,
il vento non c’entra nulla.
La poesia sulla quale mi soffermo è A notte scendono le buttane. Mi trovavo a Palermo, ero in giro con la mia fidanzata (che dopo sarebbe diventata mia moglie); rincasando dopo aver fatto serata e passando dalla zona di Via Ajutamicristo, ci trovammo in una zona che di notte si popola di prostitute e clienti. Sono soprattutto ragazze africane, guardate a vista dai loro connazionali-schiavisti. Incrociammo lo sguardo di una di loro, una donna bellissima, statuaria. Era completamente nuda. Ricordo con precisione lo sguardo che diede a Laura: gelido. Lessi in quegli occhi un disgusto, una rabbia, un dolore mai visto prima. Forse odio. Lei si chiedeva – e chiedeva a noi- perché le stava capitando quello che stava vivendo, che cosa aveva lei in meno della mia ragazza che invece camminava mano nella mano tranquilla e speranzosa della sua vita “serena”? Fu uno sguardo terribile. Rimasi colpito da quegli occhi e ne scrissi.
A notte scendono le buttane
nere nigeriane congolesi
alcune sono già senza mutande
hanno la fica di fuori
in strada a forza di calci a forza di coca
perché senza una vita così non la reggi.
Non i cazzi che cercano la felicità,
i cazzi grassi brutti soli
non questi fanno ribrezzo
ma i cazzi che si credono pugno pistola banconota,
ogni volta che una torna al posto dopo averne preso uno
fa come fanno gli scampati in guerra
nell’anima segna l’ennesima tacca.
Per questo quando ci passi accanto
ti guardano con gli occhi dello schifo
ti odiano come odia un sopravvissuto,
per questo gridano perché io sì e tu no.