Pietro Romano (Palermo, 1994) si è laureato in Italianistica presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna con una tesi su Nino De Vita. Ha pubblicato due raccolte poetiche, dal titolo Il sentimento dell’esserci (Rupe Mutevole 2015) e Fra mani rifiutate (I Quaderni del Bardo 2018) Collabora con varie riviste, cartacee e online, tra cui Steve, L’Ottavo, Inverso-Giornale di Poesia. I suoi versi sono stati tradotti in russo («Мой дом — до молчанья», “La mia casa è prima del silenzio”, Free Poetry 2019, con prefazione e traduzione di Olga Logoch, collana di poesia italiana a cura di Paolo Galvagni, traduzione di Fra mani rifiutate), greco, catalano e spagnolo, e inseriti nell’antologia Le parole a quest’ora (Free Poetry 2019, a cura di Paolo Galvagni). Nel 2020 esce Case sepolte (I Quaderni del Bardo), con prefazione di Gian Ruggero Manzoni, postfazione di Franca Alaimo e disegni di Angela Catucci. “Luce di dentro, soglia inesausta del passo.”, un verso da “Feriti dall’acqua” (peQuod, 2022, collana “portosepolto” a cura di Luca Pizzolitto) per introdurre la nostra intervista.
Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Feriti dall’acqua”?
È una raccolta di testi che vede nell’acqua un remoto impronunciabile: in diversi momenti, mi è accaduto di vivere una forma di derealizzazione per la quale persone e cose mi sembravano perdersi in un flusso ineluttabile di non permanenza. Gradualmente, ho realizzato che invero ero io a scorrere e a guardare la realtà come da un treno in corsa, se non addirittura mediante il filtro di una cinepresa cui mi ero assuefatto. Ero nel tremendo della distanza, e forse vi sono ancora adesso. Ecco, la ferita cui si vuole dare espressione è tutta “un di dentro”, solcata da distanze nelle quali credo di riuscire a far parlare la lingua del ricordo.
“per anni avere sostato dentro l’occhio/ che posa fra luce e luce.”, con i tuoi versi per chiederti: dove sei stato condotto dalla poesia?
Non so se i miei versi mi abbiano condotto da qualche parte. Spero, tuttavia, di potere restituire, quando scrivo, forma e compiutezza a quella voce che preme da dentro. Di darle “casa”. Di renderla abitabile da me che sono sempre altrove e sempre altro, reduce da “stati di mancanza”.
E, ancora, cosa credi possa la poesia per colmare le “assenze ramificate”?
Non so se la poesia colmi. La poesia nasce da sete e la sete da arsure. Certo, scrivere aiuta a ricostruire mappe nelle quali l’assenza si rende tangibile e proietta le sue ombre. E tuttavia, ammetto che, quando provo a scrivere, in una brevità minima, mi sento riconciliato con un’intimità rischiarata appena, dov’è percepibile il suono dell’acqua. Ecco, la poesia non colma, perché, almeno per quel che mi riguarda, vive di uno sguardo destinato a rimanere introiettato per potere sporgersi talvolta all’esterno e cogliere il miracolo della luce.
In che modo la vita diventa linguaggio?
La vita diventa linguaggio quando la si destruttura di tutti quei significati che la rendono convenzionale e la sottraggono a un flusso di continua imminenza. Quando ci si ferma a guardarla per capire come “tutto è concresciuto in un albero folto”, tra i cui rami “luccicano città scomparse”. Non casualmente uso questi versi di Tranströmer: credo che la vita abbia inizio laddove ogni cosa si esprime nel suo rovescio. Il linguaggio poetico si colloca al di là dell’ordinario: lo ribalta per porre dinanzi a momenti di significazione piena, di natura prelinguistica e per questo vicini al rumore dell’acqua.
La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?
La poesia è anche la lingua dell’invalicabile, sì. Quando se ne fa esperienza, ci si pone dinanzi a un’esperienza di confine. Il poeta illumina il confine, riaccende l’intimo della lingua, traghetta dalle parole all’acqua. E tuttavia, credo, affinché ciò si renda possibile, bisogna rinunciare predisporsi a un atteggiamento di derelizione della parola, rinunciando a ogni pretesa di proprietà su di essa. Le parole ci sono date, ma appartengono a un altro da noi che è remoto e di cui giunge sempre qualcosa di parziale. In questa tensione irrisolta si cerca di rimarginare la perdita, la distanza che ci accompagna verso la parola. Mi vengono in mente alcuni versi di Franca Alaimo: “tutto/ ci cade addosso senza pietà, perfino la bellezza”.
La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?
La forma è segno di compiutezza ma non sempre di verità: spesso, la forma che si immagina deve ubbidire a una precisa intenzione autoriale, senza cui l’opera potrebbe non trovare espressione. Nello stesso tempo, tuttavia, è nella forma che si riuniscono luci e ombre delle stanze che ci abitano e abitiamo. Per quel che mi concerne, cerco sempre di adattare ciò che scrivo alla forma che meglio possa avvicinarsi al mistero che mi abita.
Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?
Non ho particolari istruzioni da impartire. Al contrario, sono io a ricercarle dai poeti che leggo e cui guardo. Quel che posso consigliare è leggere, leggere molto. Studiare, ricercare. Poi, attendere che sia tempo. Macerarsi, se necessario. Ascoltare, poi scrivere. Mai forzare. Ascoltarsi e lasciare decantare. E poi, dopo tempo, riscrivere e sottrarre, riscrivere e sottrarre. Confrontarsi con qualcuno che non abbia il tuo sguardo e ti dica ciò che pensa di quanto hai scritto senza infingimenti.
Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?
Due i doni per me più preziosi. Gli incontri, con l’altro che mi abita e di cui ascolto l’assenza nei momenti di attesa. Le luci e le ombre dei poeti che ho letto e il loro sguardo verso il possibile e le zone al confine. Ai poeti, tutti, io desidero rendere grazie, per il modo in cui la loro parola si tende a rischiarare l’incompiuto e a dargli spazio.
Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal libro “Feriti dall’acqua” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Come tradurre l’azzurro arreso del cielo,
quando, con l’odore di terra riarsa, le parole
separano le nubi dalle nubi, gli uccelli
dagli uccelli, le foglie dalle foglie?
Questa quartina è la più lontana nel tempo. Avevo letto e poi riletto “L’ora presente” di Bonnefoy, edito in Italia da Mondadori nella traduzione di Fabio Scotto. Non saprei ricostruire il percorso che l’ha vista nascere. Ho sempre manifestato una certa difficoltà a collocarmi nello spazio e nel tempo, lo accennavo sopra. La mia memoria non sempre ha un luogo fisico e talvolta rifiuta il tempo. In compenso, essa mi appare raggomitolata in un’interiorità fatta di distanze e percezioni da ricucire attraverso le parole. Tornando a questi versi, presumo che siano tra quelli più indicativi del mio sguardo. L’interrogativo che mi pongo è: come risarcire la parzialità cui la lingua è inevitabilmente destinata? Come risolvere lo iato tra le cose e le parole, se poi, nell’indicare il ricordo o l’istante presente, qualcosa o molto dell’esperienza così come la viviamo per noi sembra perdersi? Luca Pizzolitto mi ha fatto dono di un libro bellissimo, “Poesia dal silenzio”, di Tranströmer, che si apre con parole per me applicabili, a un livello generale, alla globalità dell’esperienza stessa: «Dal punto di vista teorico la traduzione poetica può considerarsi un’assurdità. Ma in pratica dobbiamo credere nella traduzione della poesia».