È coerente il percorso di Annalisa Ciampalini, la strada espressiva intrapresa e condotta con costanza. Si muove tra visione e riflessione, buio e ricerca di luce, corporeità e nitidezza. Non è casuale il titolo di questa sua raccolta: “Tutte le cose che chiudono gli occhi”. È adeguato allo specifico dei testi che compongono la silloge e anche al percorso più ampio a cui si è fatto cenno in precedenza. La chiusura degli occhi è un gesto in apparenza minimo, quasi impercettibile, eppure in grado di contenere vasti orizzonti di significati e di simboli. In primo luogo il punto che separa ed unisce la veglia dal sonno (e quindi dal sogno) e la morte dalla vita. In quel gesto minimo è racchiuso il tutto. È anche un gesto di estrema dolcezza e delicatezza, che tuttavia esprime anche la forza di una necessità che è altresì, potenzialmente, una scelta. Chiudere gli occhi vuole poter dire anche schierarsi altrove, scegliere di non vedere, non guardare, rifugiarsi in un mondo altro, differente. L’esergo, tratto dai versi di Silvia Bre, contribuisce anch’esso a determinare l’atmosfera, l’approccio, il punto di vista: “Come quando in una qualche stagione / spicca l’istante che la farà nostra”. Il libro della Ciampalini parla della ricerca di quell’attimo, di quella stagione, di quel tempo che si distingue perché rivela ciò che veramente siamo, l’essenza. A tutto ciò si collega anche l’inizio del libro, la lirica iniziale: “I nostri corpi complementari / il tuo chiarore / la mia esile oscurità. / Tua è la pietra dell’inverno / il seme dormiente nel giaciglio scuro / le mani che sanno dove premere. / A me resta l’albero lontano / il bianco che si accumula piano / il fiore pallido / esitante tra le dita”. Qualche passo dalla prefazione di Valeria Serofilli per introdurre la nostra intervista.
Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Tutte le cose che chiudono gli occhi”, edito da peQuod nella collana “Portosepolto” a cura di Luca Pizzolitto?
Quando scrivo non ho in mente un progetto di libro. “Tutte le cose che chiudono gli occhi” raccoglie poesie scritte nell’arco di diversi anni, pertanto possono essere abbastanza indipendenti l’una dall’altra. Se penso alle varie sezioni che compongono il libro, ora che è passato un po’ di tempo dalla pubblicazione, mi sembra che siano nate sotto luci differenti. Tutto ciò per dire che ci sono varie scintille che hanno dato vita a questa raccolta. Mi preme aggiungere che, da un certo punto in poi, mentre la silloge stava prendendo la sua forma definitiva, è stata forte la sensazione di far parte di un gruppo di persone e di condividere con queste la stessa condizione umana, le stesse difficoltà e attese. Forse è questo desiderio di condivisione la scintilla principale.
“Il cielo è basso per noi/ deserti i punti di ritrovo”, con i tuoi versi per chiederti: dove sei stata condotta dalla poesia?
Come lettrice posso dire che la poesia è principalmente un tramite per avvicinarmi all’interiorità dell’autore, un mezzo che mi induce a scostarmi dal mio baricentro per andare verso un’altra persona, verso luoghi che non conosco ma che, se “vissuti” attraverso la lettura, possono diventare familiari. Quando sono io a scrivere, la poesia mi conduce in molti luoghi: in posti che non conosco ma ai quali ho pensato molto, e in posti dove desidero ritornare anche se non esistono più. Tutto dipende dall’intensità con la quale viviamo, dal nostro rapporto con l’arte poetica, ma anche con altre forme artistiche e da come usiamo il nostro pensiero, i nostri sentimenti, il nostro amore.
E, ancora, cosa credi possa la poesia per colmare – come le definisci – “un tempo fuori misura”?
Questa domanda è strettamente collegata alla precedente. La poesia ci fa muovere attraverso lo spazio e il tempo, e può farlo perché è uno strumento potente. Non rispetta sempre le misure: voglio dire che può dilatare o contrarre l’ampiezza degli intervalli temporali, e ha un modo di procedere che a volte somiglia a quello del sogno. La poesia può rendere più grande una vita, quindi, certo, serve anche a colmare, a dare senso, a raggiungere momenti che consideravamo perduti.
In che modo la vita diventa linguaggio?
Giusto: la poesia è anche vita che diventa linguaggio. Non so come avvenga, non è un processo che so descrivere con precisione, forse c’è chi sa esporre compiutamente gli stadi di questa trasformazione che per me resta molto misteriosa. Lo dico sinceramente, non con l’intenzione di stupire. Credo che a trasformare la vita in linguaggio sia un impulso, una direzione che dobbiamo solo seguire, vivere e ascoltare. Certo che la curiosità di sapere di cosa si tratta può essere forte.
La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?
Sì, secondo il mio modo di vedere e di sentire lo è senza dubbio. Diventa la lingua dell’invalicabile quando il desiderio di chi scrive è di comunicare quella parte di mondo che possiede una natura misteriosa e che spesso resta inespressa nella quotidianità. Non di rado accade che la poesia presti attenzione proprio a quell’aura che possiedono tutte le cose e che va oltre la loro corporeità, a ciò che resta quando qualcosa non è più. Credo che ogni poeta ami questo mondo mai pienamente detto, e che sfugge nonostante la sua potenza. E credo pure che questa parte indicibile non sia la stessa per tutte le persone, per tutti i poeti.
La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?
Dico la verità: quando iniziai a interessarmi di poesia credevo che il contenuto di un componimento poetico e il pensiero che ne è alla base fossero più importanti rispetto alla forma. Oggi credo che una poesia nasca con una forma ben definita e che tale forma sia inseparabile da tutto il resto. Se la parola poetica ha una sua verità è anche perché possiede una forma in grado di poterla manifestare.
Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?
È molto difficile darle. Considerata la mia esperienza suggerirei di leggere molto: tanta bella poesia, prosa, e più in generale ogni cosa che ci sembra buona. È importante leggere ad alta voce, osservare, lasciarsi coinvolgere, ascoltare: dopotutto anche la lettura è una forma di ascolto. Come già ho espresso nelle risposte precedenti, per me la poesia è anche un mezzo per conoscere l’altro e mondi che non mi appartengono, per questo mi permetto di suggerire di leggere e di ascoltare.
Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?
Per prima cosa la poesia mi ha dato la possibilità di incontrare persone e di formare nuove amicizie. Più in generale ha fatto sì che la mia vita venisse arricchita di presenze importanti e occupazioni coinvolgenti. Sintetizzando, la poesia ha aggiunto persone e spazio alla mia vita, e di questo sono molto felice.
Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal libro “Tutte le cose che chiudono gli occhi” – (riportala gentilmente) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Saluto i lettori e ti ringrazio cara Grazia per le domande intelligenti che mi hai posto, per la tua sensibilità e generosità che oramai conosco. Per concludere propongo una poesia che compare nell’ultima sezione del libro e che si apre con una citazione di Sereni. La sezione si intitola “Viaggi”. Questa poesia iniziò a formarsi oltre venti anni fa: tornavo da un viaggio ed era l’inizio dell’estate. Ero in un aeroporto e osservavo il cartellone in cui ci sono scritte le destinazioni dei voli, fuori c’era un tramonto bellissimo, un cielo sereno, immenso. Le scritte del cartellone, sempre in procinto di mutare in città vere, davano un senso di indeterminatezza, di leggerezza, il cielo sembrava accogliere tutti, dare a ognuno di noi una possibilità. Sentivo aria di novità, di cose buone, ma non ben definibili. A quel tempo scrissi solo poche righe, oggi è diventata la poesia riportata qui sotto.
…il palpebrío del jet nel suo orgasmo di mutante
quando è ancora e non è più
un numero-luce….
(Vittorio Sereni)
L’aereo sta per atterrare
e un pensiero di azzurre trasparenze
si diffonde nell’area del risveglio.
Intanto la scritta luminosa della destinazione
vibra nell’indeterminatezza,
cerca un impulso favorevole,
feconda la costa, si trasforma in città.
Noi dobbiamo solo restare vivi
immaginare un luogo che ci aspetta
e una luce prematura.
Inventare questa gioia.
—
Annalisa Ciampalini è nata a Firenze nel 1968. Ama da sempre la poesia e la matematica, la musica e la natura. Nel 2008 ha pubblicato la raccolta “L’istante si dilata” con Ibiskos Editrice, nel 2014 la raccolta “L’assenza” edita da Ladolfi Editore. Nel 2018 pubblica “Le distrazioni del viaggio” con Samuele editore, libro tradotto in spagnolo da Antonio Nazzaro. Suoi contributi appaiono su diverse antologie edite da Fara editore. Insieme a Giancarlo Stoccoro ha contribuito al libro Pierino Porcospino e l’analista selvaggio (ADV Publishing House 2016) volume che raccoglie testi di diversi autori.