Anteprima dal libro “Milano dalle finestre dei bar” (Marco Saya Edizioni)

 

cop luca vaglio

 

L’ossigeno della dizione

Nella Milano in cui si vive gomito a gomiti, in un realismo terminale così avvolgente come un sudario, ci sono dei campi base utili per scalare le montagne della nostra temporalità. Sono i bar con musica e avventori, che permettono di pensare quasi shackespirianamente intorno all’esistere o invece no. Non é vietato un rivolo o un refolo di una qualche felicità. Le parole di questa scrittura si accumulano, a volte come proiettili di diverse traiettorie, che però non sono belliche ma dispongono di una propria elasticità grazie alla quale rimbalzano per accumularsi in un altrove. Anche il luogo più ovvio o scalcinato può essere visto e goduto come non privo di una sua beltà. É questa una scrittura senza reticenza, che si espone con lampi di estenuazione ma, sui tanti no, galleggia mitemente un complessivo senso dell’affermazione. Insomma, sull’usura del nostro abusato linguaggio, riesce a prevalere l’ossigeno della dizione. Questi, appunti veloci, ma non distratti, leggendo i testi e i versi di Luca Vaglio.

(Guido Oldani)

 

MILANO

 

Le luci della tua notte sono ghiaccio e pompelmo
aprono la via, la sosta volontaria
sui riflessi grigio-metallo del bancone
schiuma di birra sopra il linoleum e tre euro da non pagare
forse un regalo
un gioco o la memoria segreta del cuore
attorno ciao e niente e silenzio
e rumore di folla davanti all’autorimessa
mojito minerale, rhum freddo senza menta
razione nuova-liquida di ossigeno
a lavare l’aria, a correggere l’afa e l’estate
vicino alla strada oasi di tigli
terra secca che taglia l’asfalto
le lucciole del sudamerica milanese
e voci e baci e bicipiti, tacchi e cotone
festa gialla e cronica di luglio, movida-janga
al confine di Lambrate

*

Birra di troppo liquida
il sonno, regala la veglia alcoolica
di un presente verticale
e dolore dentro gli occhi
nausea fredda per il corpo
e ancora necessità di non fare
di stare senza pensare
di guardare la vita da fuori
protetto da una smagliatura temporale
una dissolvenza sull’ora della morte

*
In via Ponte Vetero sprofonda
e traspare il cielo di Milano
linfa inattesa di azzurro chiaro
e bianco sfumato, quasi un’oasi
urbana di gas diafano e rotaie
fragile armonia di suoni ferrosi

*

Abito una nicchia possibile
un angolo, un canto vuoto
a vita rallentata
che gli uomini vedono
e passano nel tempo libero
dove sonno e cibo
sono accidenti variabili
e le cose del mondo
mancano, galleggiando più in là
fuori dal raggio delle mie braccia

*

Lampadine viola ai vetri del Caffè Luna
unica luce a far vedere le cose
insieme all’alba afosa di luglio

Linda – è il suo nome italiano,
la sua identità milanese –
mi porta un succo d’arancia
e si siede a un tavolino
non le serve stare al bancone
ci sono solo io
che leggo la Gazzetta dello Sport

si scatta delle foto con il suo iPhone bianco
tutte primissimi piani
forse poi le mette su Facebook
oppure lo fa per misurarsi il sorriso
la curva dell’incarnato avorio
lei ancora ventenne
arrivata bambina dalla Manciuria
per una parte da diva
qui, in un bar all’angolo tra Lambrate e Città Studi

*

Fuoco solare sul pavimento
grigio del giardino
i fili d’erba si accendono di verde-cenere
le ombre cadono forti
e lunghe
onde musicali
e diversi centri di parola
sono quello che accade
le persone hanno poco pensiero
tra i neuroni e le palpebre aperte
sul tempo delle cose

*

Gli occhi vedono solo
il profilo opaco
dell’ombra dell’angelo
e quasi sempre
è una figura rovesciata
parvenza mortale che sale
in assenza della vera luce
della trasparenza originale

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